Avvocato penalista - Registrare le telefonate dei propri figli integra il reato di cui all'Art. 617 del Codice Penale, intitolato Cognizione, interruzione o impedimento illeciti di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche.
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"" Registrare le telefonate dei figli è reato
Registrare le telefonate dei figli è reato
Suprema Corte di Cassazione VI Sezione Penale
Sentenza 17 luglio – 3 ottobre 2014, n. 41192
Sentenza 17 luglio – 3 ottobre 2014, n. 41192
La Cassazione spesso ci ha fatto notare come un matrimonio finito male il più delle volte non cessa con la sentenza di separazione o di divorzio ma origina numerosi altri procedimenti (penali e civili) tra gli ex coniugi in cui inevitabilmente si finisce per coinvolgere i figli e la loro tranquillità.
Nel caso di specie, la Corte affronta una questione delicata riguardante i rapporti tra i figli minorenni e i genitori e, più nello specifico, si sofferma ad analizzare situazioni giuridiche che, degenerando, conducono alla commissione di un reato penale, come quello previsto all’articolo 617 c.p.
Il padre, a cui erano stati affidati i figli minori, era stato condannato dalla Corte d’Appello di Ancona, che confermava la sentenza di primo grado, per aver registrato le comunicazioni telefoniche avvenute tra la ex moglie e i figli.
L’uomo ricorreva in Cassazione deducando il difetto di tipicità del fatto per la mancanza di uno degli elementi costitutivi del reato, atteso che i figli minori dell’imputato non possono considerarsi “altre persone” nel senso accolto dalla norma incriminatrice, trattandosi di soggetti che non potrebbero sottrarsi alla potestà genitoriale e ai doveri di vigilanza che il suo esercizio comporta opponendo la riservatezza delle proprie comunicazioni.
L’uomo lamentava altresì il mancato riconoscimento della scriminante di cui all’art. 51 c.p., avendo l’imputato agito nell’esercizio del diritto/dovere di controllare le comunicazioni effettuate o ricevute dai figli minori perché fortemente preoccupato dall’influenza negativa esercitata dalla madre su di essi.
Articolo 617 Codice Penale Cognizione, interruzione o impedimento illeciti di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche
Chiunque, fraudolentemente, prende cognizione di una comunicazione o di una conversazione, telefoniche o telegrafiche, tra altre persone o comunque a lui non dirette, ovvero le interrompe o le impedisce è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni [c.p.p. 266-271].
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, la stessa pena si applica a chiunque rivela, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, in tutto o in parte, il contenuto delle comunicazioni o delle conversazioni indicate nella prima parte di questo articolo.
I delitti sono punibili a querela della persona offesa; tuttavia si procede d’ufficio e la pena è della reclusione da uno a cinque anni se il fatto è commesso in danno di un pubblico ufficiale o di un incaricato di un pubblico servizio nell’esercizio o a causa delle funzioni o del servizio, ovvero da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o servizio, o da chi esercita anche abusivamente la professione di investigatore privato.
Articolo 51 Codice Penale Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere
L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità.
Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell’autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l’ordine.
Risponde del reato altresì chi ha eseguito l’ordine, salvo che, per errore di fatto abbia ritenuto di obbedire a un ordine legittimo.
Non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine.
La Cassazione risponde ricordando come “l’art. 617 c.p. contestato all’imputato tuteli la libertà e la riservatezza delle comunicazioni telefoniche o telegrafiche contro la possibilità di indiscrezioni, interruzioni o impedimenti da parte di terzi.
In particolare il diritto alla riservatezza della comunicazione o della conversazione implica la possibilità di escludere altri dalla conoscenza del contenuto della medesima e coerentemente la norma incriminatrice menzionata punisce in tal senso anche la condotta di colui che invece ne prenda cognizione senza il consenso dei titolari“.
I giudici continuano spiegando che “il requisito espresso di tipicità del fatto è che la comunicazione o la conversazione intervenga tra persone diverse dall’agente. Elemento sussistente nel caso di specie, dove oggetto della illecita presa di cognizione sono le conversazioni telefoniche intervenute tra i figli dell’imputato e la loro madre.
In proposito il ricorrente, con il primo motivo, ha cercato di sostenere che in realtà tale requisito non sussisterebbe nel caso di specie in quanto i figli, in quanto minori, non sarebbero “soggetti autonomi” in grado di opporre una propria sfera di riservatezza al padre esercente la responsabilità genitoriale e i doveri di controllo sul loro operato che da questa discendono“.
Pertanto, “la tesi non ha pregio alcuno, atteso che indubitabilmente, ancorché minori, i figli sono soggetti “altri” rispetto al padre e tanto basta per ritenere integrata la condizione di tipicità del fatto.
L’eventuale rilevanza degli obblighi di vigilanza del genitore nei confronti dei figli minori può eventualmente dispiegarsi nel momento in cui debba valutarsi l’effettiva antigiuridicità del fatto (sul punto si tornerà successivamente esaminando gli ulteriori motivo del ricorso), ma certo tali obblighi non comportano una sorta di immedesimazione tra padre e figlio come quella prospettata dal ricorrente“.
Inoltre, “il carattere della fraudolenza qualifica il mezzo utilizzato per prendere cognizione della comunicazione, il quale deve essere pertanto idoneo ad eludere la possibilità di percezione del fatto illecito da parte di coloro tra i quali la stessa intercorre.
In altri termini la presa di cognizione punita dalla disposizione citata è quella realizzata con mezzi che ne garantiscano sostanzialmente la clandestinità”.
In tal senso l’obiezione difensiva risulta manifestamente infondata, atteso che la mera comunicazione dell’intenzione futura di registrare le telefonate a coloro che dovranno effettuarle non equivale a quella con cui questi ultimi vengono resi partecipi nell’attualità della conversazione dell’interferenza, la quale sola eventualmente potrebbe far venir meno la connotazione fraudolenta della medesima.
Quanto poi al mancato riconoscimento della scriminante, i giudici chiariscono che “il principio per cui, ai fini dell’applicazione della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p., è necessario che l’attività posta in essere costituisca una corretta estrinsecazione delle facoltà inerenti alla situazione soggettiva che viene in considerazione, nel senso che il fatto penalmente rilevante sotto il profilo formale sia stato effettivamente determinato dal legittimo esercizio di un diritto o dal legittimo adempimento di un dovere da parte dell’agente (Sez. 6, n. 14540/11 del 2 dicembre 2010, Pafadnam, Rv. 250025).
In altri termini la scriminante sussiste solo se il fatto penalmente illecito sia stato effettivamente determinato dalla necessità di esercitare il diritto o di adempiere il dovere.
L’art. 51 c.p. non può insomma trovare applicazione in quei casi in cui detta necessità non ricorre, compreso quello in cui l’attività dell’agente abbia oltrepassato i limiti della situazione soggettiva che invoca a giustificazione della propria condotta“.
In tal senso va allora osservato come “il diritto/dovere di vigilare sulle comunicazioni del minore da parte del genitore non giustifichi indiscriminatamente qualsiasi altrimenti illecita intrusione nella sfera di riservatezza del primo (espressamente riconosciutagli dall’art. 16 della Convenzione sui diritti del fanciullo approvata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata dallo Stato italiano con la legge 27 maggio 1991, n. 176), ma solo quelle interferenze che siano determinate da una effettiva necessità, da valutare secondo le concrete circostanze del caso e comunque nell’ottica della tutela dell’interesse preminente del minore e non già di quello del genitore“.
La Cassazione dunque ricollegandosi al caso di specie osserva come nello stesso “non è dunque in discussione l’astratta configurabilità di un diritto/dovere del genitore di vigilare sulle comunicazioni del minore a fini educativi o di protezione, quanto la funzionalità nel caso di specie della interferenza nella riservatezza dello stesso minore al perseguimento delle finalità per cui il potere è conferito.
Funzionalità che il ricorrente – se non attraverso la generica ed assertiva evocazione dell’esigenza di prevenire il pericolo di una non meglio imprecisata cattiva influenza della madre sui figli – non ha in alcun modo saputo indicare e che invece correttamente la Corte territoriale ha escluso rilevando come i colloqui tra madre (al pari dell’imputato titolare della responsabilità genitoriale) e figli fossero stati espressamente assicurati dal regolamento fissato dal Tribunale dei Minorenni per la disciplina dell’affidamento dei minori“.
Pertanto, “esclusa dunque la sussistenza della causa di giustificazione invocata dal ricorrente, nemmeno può ritenersi che l’imputato abbia agito nelle condizioni di cui al quarto comma dell’art. 59 c.p., per le ragioni correttamente evidenziate nella sentenza impugnata.
Va infatti ricordato che l’esimente putativa ricorre solo in rapporto ad atti che obbiettivamente e non soltanto nell’opinione dell’agente, concretino i presupposti per l’esercizio del diritto o la necessità di adempimento del dovere.
Né in tal senso rilevano l’eventuale appoggio o addirittura istigazione (per come prospettato dal ricorrente) che l’imputato avrebbe trovato negli assistenti sociali ovvero i suoi presunti limiti socio-culturali, peraltro solo genericamente tratteggiati dal ricorrente“.
Articolo 59 Codice Penale Circostanze non conosciute o erroneamente supposte
Le circostanze che attenuano o escludono la pena sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti.
Le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa.
Se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze aggravanti o attenuanti, queste non sono valutate contro o a favore di lui.
Se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. ""
Fonte sentenze-cassazione.com, qui:
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