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mercoledì 6 gennaio 2016

Avvocato penalista - L'abuso edilizio, il reato di cui all'Art. 20 L. 28 febbraio 1985, n°. 47, come sostituito dall'Art. 44 D.P.R. 6 giugno 2001, n°. 380.

Avvocato penalista - L'abuso edilizio, il reato di cui all'Art. 20 L. 28 febbraio 1985, n°. 47, come sostituito dall'Art. 44 D.P.R. 6 giugno 2001, n°. 380.
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Avvocato penalista - L'abuso edilizio, il reato di cui all'Art. 20 L. 28 febbraio 1985, n°. 47, come sostituito dall'Art. 44 D.P.R. 6 giugno 2001, n°. 380.
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" Il reato di abuso edilizio. Disciplina del reato di abuso edilizio: elemento oggettivo, elemento soggettivo, circostanze attenuanti ed esimenti, soggetti attivi.

Il reato di costruzione edilizia senza permesso di costruire o in difformità da esso ha natura permanente e la permanenza cessa con il totale esaurimento dell’attività illecita, cioè o con la totale sospensione dei lavori, sia essa volontaria o dovuta a provvedimento autoritativo (es. sequestro) ovvero con l’ultimazione dell’opera nel suo complesso, compresi i lavori di rifinitura esterni, quali gli intonaci e gli infissi, ed interni.

Costante è la giurisprudenza della Suprema Corte in proposito:

—   «La permanenza del reato di costruzione abusiva cessa con il completamento dell’opera, comprese le rifiniture, ovvero con la totale sospensione dei lavori, sia essa volontaria o dovuta a provvedimento autoritativo (sequestro, ordinanza di sospensione dei lavori od altro), oppure, nell’ipotesi in cui i lavori siano proseguiti successivamente all’accertamento senza che sia intervenuto alcun provvedimento sospensivo, fino alla sentenza di condanna di primo grado» (Cass.: sez. III: 25 settembre 2001, n. 38136, Triassi; 4 settembre 2007, n. 33825, Caputo; 4 febbraio 2014, n. 5480, in Riv. giur. edilizia, 2014, I, 441).

—   «Il reato di costruzione edilizia senza concessione ha natura permanente e la permanenza cessa con il totale esaurimento dell’attività illecita, cioè con la totale sospensione dei lavori, sia essa volontaria (da provare rigorosamente) o dovuta a provvedimento autoritativo, ovvero con l’ultimazione dell’opera nel suo complesso, compresi i lavori di rifinitura interni ed esterni» (Cass., sez. III: 8 luglio 2005, Amadori, in Riv. giur. edilizia, 2005, I, 1758; 10 dicembre 1998, Bordonaro, in Riv. giur. edilizia, 1999, I, 1177; 21 dicembre 1998, Spagnuolo, in Riv. giur. edilizia, 2000, I, 198).

—   «La permanenza nella contravvenzione di costruzione abusiva cessa per interruzione definitiva dei lavori o per completamento dell’opera stessa in quanto l’abusività inficia la costruzione in tutte le sue parti, non solo quelle strutturali, ivi comprese le opere di completamento» (Cass., sez. III, 2 ottobre 2001, Fara, in RivistAmbiente, 2002, 205).

—   «Il reato di costruzione abusiva permane finché dura la condotta diretta al completamento dell’opera, per la realizzazione delle sue identità e idoneità funzionali, a nulla rilevando che l’art. 31, 2° comma, L. n. 47 del 1985, ai soli fini della particolare forma di sanatoria regolata dal capo IV della medesima legge (condono edilizio), prenda in considerazione il più limitato concetto di costruzione al rustico» (Cass., sez. III, 8 giugno 2010, n. 25618, in Riv. giur. edilizia, 2010, I, 1728).

—   «Il concetto di ultimazione dei lavori edilizi contenuto nell’art. 31 L. 28 febbraio 1985, n. 47 è applicabile solo in riferimento alla particolare forma di sanatoria regolata dal capo IV della medesima legge (cd. condono edilizio), onde non è utilizzabile per finalità diverse (nella specie: cessazione della permanenza)» (Cass., sez. III: 3 giugno 2003, n. 33013, Sorrentino; 21 febbraio 1990, in Riv. giur. edilizia, 1991, I, 1187).

—   «L’uso effettivo dell’immobile, accompagnato dall’attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente al fine di ritenere “ultimato” l’immobile abusivamente realizzato, coincidendo l’ultimazione con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi (fattispecie in tema di prescrizione del reato di cui all’art. 44, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380)» (Cass. sez. III: 4 novembre 2011, n. 40033; 18 ottobre 2011, n. 39733).

—   «In tema di lavori edilizi abusivi, la violazione dell’art. 17, lett. b), legge 28 gennaio 1977, n. 10, ha carattere permanente e il momento di cessazione della permanenza deve essere individuato con riferimento al momento in cui cessa l’attività illecita dell’autore e non a quello in cui si cancella lo stato oggettivamente antigiuridico della sua condotta, ciò che riguarda le conseguenze del reato sul piano amministrativo (demolizioni) o civilistico (risarcimento dei danni); la ratio della disciplina urbanistica, infatti, mira a colpire l’illecita attività costruttiva e non anche l’inerzia dell’autore dell’illecito nel ripristinare lo stato antecedente dei luoghi» (Cass., 17 maggio 1982, in Riv. pen., 1983, 608).

—   «Anche in materia edilizia, in base al principio generale per cui ciascuno deve dare dimostrazione di quanto afferma, grava sull’imputato che voglia giovarsi della causa estintiva della prescrizione, in contrasto o in aggiunta a quanto già risulta in proposito dagli atti di causa, l’onere di allegare gli elementi in suo possesso, dei quali è il solo a potere concretamente disporre, per determinare la data di inizio del decorso del termine di prescrizione ed in particolare, trattandosi di reato edilizio, la data di esecuzione dell’opera incriminata» (Cass., sez. III: 8 maggio 2012, n. 16961; 23 gennaio 2014, n. 3137).

—   «L’onere della prova circa la data di realizzazione dell’immobile abusivo spetta a chi ha commesso l’abuso e solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi, che non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni, trasferisce il suddetto onere in capo all’amministrazione» (C. Stato, sez. V, 9 novembre 2009, n. 6984).

—   «In mancanza di diversa prova, che deve essere fornita dall’imputato, la data di completamento delle opere abusive si presume coincidente con quella in cui è stata contestata la violazione» (Cass., sez. III, 3 marzo 2005, Barbetta, in Riv. giur. edilizia, 2006, I, 261).

—   «In caso di procedimento per violazione dell’art. 20 L. 28 febbraio 1985, n. 47, sempre restando a carico dell’accusa l’onere della prova della data di inizio della decorrenza del termine prescrittivo, non basta una mera e diversa affermazione da parte dell’imputato a fare ritenere che il reato sia realmente estinto per prescrizione e neppure a determinare l’incertezza sulla data di inizio della decorrenza del relativo termine con la conseguente applicazione del principio in dubio pro reo, atteso che, in base al principio generale per cui ciascuno deve dare dimostrazione di quanto afferma, grava sull’imputato che voglia giovarsi della causa estintiva, in contrasto o in aggiunta a quanto già risulta in proposito dagli atti di causa, l’onere di allegare gli elementi in suo possesso, dei quali è il solo a potere concretamente disporre, per determinare la data di inizio del decorso del termine di prescrizione, data che in tali ipotesi coincide con quella di esecuzione dell’opera incriminata» (Cass., sez. III: 13 maggio 2013, n. 20381, in Riv. giur. edilizia, 2013, I, 716; 7 maggio 2009, n. 19082).

Al fine di individuare il momento di cessazione della permanenza, inoltre, non può aversi riguardo alla data di ultimazione delle singole parti del fabbricato. Qualora, pertanto, vengono realizzate varianti abusive in alcune parti di un manufatto rientranti nella conformazione unitaria dello stesso, la prescrizione inizierà a decorrere dal momento in cui sia venuta a cessare ogni attività principale o accessoria di costruzione, e non soltanto quella inerente alle parti non consentite.

In ipotesi siffatte, invero, secondo la Cassazione:

—   «La valutazione di un’opera edilizia abusiva va effettuata con riferimento al suo complesso, non potendosi considerare separatamente i suoi singoli componenti, così che, in virtù del concetto unitario di costruzione, la stessa può dirsi completata solo ove siano stati terminati i lavori relativi a tutte le parti dell’edificio; conseguentemente la permanenza del reato di costruzione in difetto di concessione cessa con la realizzazione totale dell’opera in ogni sua parte (nella specie, la Corte ha disatteso l’eccezione di prescrizione proposta in relazione alla realizzazione di un fabbricato per il quale risultava realizzata in epoca recente la sola copertura, giudicando inammissibile la pretesa del ricorrente di ritenere oggetto di giudizio la sola attività di copertura dell’immobile)» (Cass., sez. III, 6 novembre 2002, Tucci, in Riv. pen., 2003, 735).

—   «In relazione ad una costruzione abusiva composta da più piani è inammissibile invocare una causa estintiva del reato (nella specie, prescrizione) in riferimento alle sole parti dell’edificio completate, posto che, in tema di reato di costruzione abusiva, la permanenza cessa, tra l’altro, con la realizzazione totale dell’opera in ogni sua parte» (Cass., sez. III, 24 agosto 1993, in Giust. pen., 1994, II, 386).

—   «Negli immobili esistenti ma costruiti senza concessione, fino a quando non venga sanata la illiceità, non possono essere compiuti interventi (nella specie, di completamento) edilizi (la Corte ha ritenuto al configurabilità del reato di cui all’art. 20, lett. c), L. n. 47 del 1985)» (Cass., sez. III, 18 giugno 1993, in Mass. Cass. pen., 1993, fasc. 12, 123).

—   «Deve essere riconosciuto il carattere unico della violazione qualora gli accertamenti si riferiscano ad un costruendo edificio in fasi di realizzazione diverse ed il secondo accertamento sia intervenuto prima che l’imputato fosse giudicato per la contravvenzione relativa al primo accertamento, poiché non può configurarsi alcuna cessazione della permanenza sì da dar luogo ad una nuova contestazione per diverso reato» (Cass., 2 dicembre 1987, in Riv. pen., 1988, 1203).

—   «La permanenza del reato di costruzione abusiva cessa, fra le altre ipotesi, con la realizzazione totale dell’opera; se, però, ad una costruzione abusiva ormai compiuta in ogni sua parte se ne aggiunge un’altra a distanza di tempo, non potrà ritenersi che sia stato realizzato un reato unico, e che la permanenza sia cessata solo con la realizzazione della seconda opera, ma dovrà affermarsi la sussistenza di due distinti reati» (Cass., 7 ottobre 1988, in Riv. pen., 1989, 701).

Qualora, poi, la condotta dell’agente persista durante il corso dell’azione penale, la permanenza cessa alla data della sentenza di primo grado.

Il sequestro penale interrompe la permanenza del reato (sicché la prescrizione inizierà a decorrere dalla data di imposizione del vincolo).

Ne deriva che l’eventuale violazione dei sigilli con la prosecuzione dei lavori abusivi, oltre a dare luogo al delitto di cui all’art. 349 cod. pen., integrerà un nuovo ed ulteriore reato ai sensi dell’art. 44 del T.U. n. 380/2001, connesso eventualmente, ove ne ricorrano i presupposti ex art. 81, 2° comma, cod. pen., con quello precedente.

—   «In tema di reato edilizio, la permanenza può ritenersi cessata con la sentenza di primo grado soltanto se sia accertato che l’attività edilizia sia proseguita fino al giorno della pronunzia, diversamente dovrà essere fissata al momento dell’ultima data certa (applicazione in tema di prescrizione)» (Cass., 27 giugno 1988, in Riv. pen., 1990, 289).

—   «La costruzione senza concessione e l’intervento alterativo del vincolo paesaggistico sono reati permanenti, nel senso che la loro consumazione si protrae fino al compimento dell’opera abusiva, o comunque fino al verificarsi di un evento impeditivo della prosecuzione dei lavori; evento che, con riferimento alle vicende del processo penale, si individua nella sentenza di condanna in primo grado o, ancor prima, nel sequestro dell’opera e che determina ex se la cessazione della condotta antigiuridica: l’eventuale prosecuzione di questa dà luogo ad una nuova violazione della legge penale» (Cass., sez. III, 6 maggio 1994, in Mass. Cass. pen., 1994, fasc. 9, 145).

—   «Il provvedimento di sequestro penale interrompe la permanenza del reato di costruzione abusiva perché sottrae all’imputato la disponibilità, di fatto e di diritto, dell’immobile, tanto che lo stesso imputato, qualora riprenda i lavori edili abusivi dopo il dissequestro dell’immobile, commette un ulteriore autonomo reato» (Cass., 15 marzo 1988, in Riv. pen., 1989, 34).

L’elemento soggettivo.

I reati edilizi sono reati contravvenzionali di cui si risponde quanto meno a titolo di colpa (così VANNINI, BATTAGLINI, BETTIOL R.): troppo rigorosa, invero, appare la teoria secondo la quale dette contravvenzioni sarebbero punibili anche qualora non si ravvisi dolo o colpa, essendo sufficiente la coscienza e volontà della condotta criminosa (PANNAIN).

Per la sussistenza dell’elemento soggettivo dei reati in esame, quindi, è sufficiente che il comportamento illecito sia derivato da imperizia, imprudenza o negligenza.Irrilevante, invece, è la circostanza che l’agente non si sia proposto uno scopo speculativo o quello di turbare l’assetto edilizio-urbanistico.

La rilevanza dell’errore.

Particolare importanza assume, anche in relazione ai reati edilizi, la problematica in tema di errore.

I limiti manualistici della presente trattazione non consentono un diffuso approfondimento del tema, ma i termini della questione — sia pure in maniera schematica — possono riassumersi come segue:

—  I precetti penalmente sanzionati dalle norme per l’edificabilità dei suoli risultano dall’integrazione delle disposizioni dell’art. 44 del T.U. n. 380/2001 con altri precetti legislativi o amministrativi.

—  L’errore sull’obbligo penalmente sanzionato, che si trova spesso in tali precetti di legge o in atti aventi valore normativo inferiore (es. piani regolatori, regolamenti edilizi, etc., i quali concorrono a formare la norma penale ed assumono così l’efficacia di essa), non scusa, ad eccezione dei casi di ignoranza inevitabile.

La Corte Costituzionale, infatti, con sentenza 23-3-1988, n. 364, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 del codice penale «nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile».

La pronunzia della Corte ha come presupposto l’analisi del principio di colpevolezza sancito dall’art. 27 della Costituzione (necessità del riferimento personale, per la responsabilità da illecito penale, e dell’esistenza di un riferimento soggettivo che individui almeno una condizione di colpa nell’agente) ed afferma che soltanto leggi chiare, precise e contenenti riconoscibili direttive di comportamento sono in grado di soddisfare il contenuto di questo principio costituzionale e, quindi, di garantire che il singolo si veda attribuire violazioni di precetti solo quando le conseguenze penali che si vengono a determinare siano il gruppo di comportamenti collegabili alla sua libera determinazione e non a condotte realizzate nella non-colpevole, e pertanto inevitabile, ignoranza del precetto.

L’obbligo di non ledere i precetti penali deve dipendere, dunque, «se non dalla effettiva conoscenza del contenuto dell’obbligo stesso, almeno dalla possibilità della sua conoscenza».

L’art. 2 della Costituzione impone ai cittadini precisi doveri di informazione sulle leggi, ma le leggi spesso sono disorganiche e di contenuto oscuro: da ciò la necessità di verificare la reale riconoscibilità dei contenuti delle norme, tenendo altresì conto che chi, pur avendo adempiuto con il massimo scrupolo tutti gli obblighi di conoscenza che gli competono «ciò nonostante venga a trovarsi in stato d’ignoranza della legge penale, non può essere trattato allo stesso modo di chi deliberatamente o per trascuratezza violi gli stessi doveri.

La violazione del divieto di commettere reati, avvenuta nell’ignoranza della legge penale, può, pertanto, dimostrare che l’agente non ha prestato alle leggi dello Stato tutta l’attenzione dovuta.

Ma se non v’è stata alcuna violazione di quest’ultima, se il cittadino, nei limiti possibili, si è dimostrato ligio al dovere (ex art. 54, primo comma, Cost.) e, ciò malgrado, continua ad ignorare la legge, deve concludersi che la sua ignoranza è inevitabile e, pertanto, scusabile».

Con riferimento, poi, ai criteri in base ai quali deve essere valutata la scusabilità o meno dell’errore o dell’ignoranza della legge penale, rileva testualmente la Corte:

«L’inevitabilità dell’errore sul divieto (e, conseguentemente, l’esclusione della colpevolezza) non va misurata alla stregua di criteri cd. soggettivi puri (ossia di parametri che valutino i dati influenti sulla conoscenza del precetto esclusivamente alla luce delle specifiche caratteristiche personali dell’agente), bensì secondo criteri oggettivi; ed anzitutto in base a criteri (cd. oggettivi puri) secondo i quali l’errore sul precetto è inevitabile nei casi d’impossibilità di conoscenza della legge penale da parte d’ogni consociato.

Tali casi attengono, per lo più, alla (oggettiva) mancanza di riconoscibilità della disposizione normativa (ad es. assoluta oscurità del testo legislativo) oppure ad un gravemente caotico (la misura di tale gravità va apprezzata anche in relazione ai diversi tipi di reato) atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari, etc.

La spersonalizzazione che un giudizio formulato alla stregua di criteri oggettivi puri necessariamente comporta va, tuttavia, compensata, secondo quanto innanzi avvertito, dall’esame di eventuali, particolari conoscenze ed «abilità» possedute dal singolo agente: queste ultime, consentendo all’autore del reato di cogliere i contenuti ed il significato determinativo della legge penale, escludono che l’ignoranza della legge penale vada qualificata come inevitabile.

Ed anche quando, sempre allo scopo di stabilire l’inevitabilità dell’errore sul divieto, ci si valga di «altri» criteri (cd. «misti») secondo i quali la predetta inevitabilità può essere determinata, fra l’altro, da particolari, positive, circostanze di fatto in cui s’è formata la deliberazione criminosa (es. «assicurazioni erronee» di persone istituzionalmente destinate a giudicare sui fatti da realizzare; precedenti, varie assoluzioni dell’agente per lo stesso fatto; etc.) occorre tener conto della «generalizzazione» dell’errore nel senso che qualunque consociato, in via di massima (salvo quanto aggiungiamo subito) sarebbe caduto nell’errore sul divieto ove si fosse trovato nelle stesse particolari condizioni dell’agente; ma, ancora una volta, la spersonalizzazione del giudizio va compensata dall’indagine attinente alla particolare posizione del singolo agente che, in generale, ma soprattutto quando eventualmente possegga specifiche «cognizioni» (ad es. conosca o sia in grado di conoscere l’origine lassistica o compiacente di assicurazioni di organi anche ufficiali etc.) è tenuto a «controllare» le informazioni ricevute.

Il fondamento costituzionale della «scusa» dell’inevitabile ignoranza della legge penale vale soprattutto per chi versa in condizioni soggettive d’inferiorità e non può certo esser strumentalizzata per coprire omissioni di controllo, indifferenze, etc., di soggetti dai quali, per la loro elevata condizione sociale e tecnica, sono esigibili particolari comportamenti realizzativi degli obblighi strumentali di diligenza nel conoscere le leggi penali».

Gli anzidetti principi fissati dalla Corte Costituzionale appaiono recepiti con opportuna prudenza dalla Cassazione:

—   «A seguito della sentenza 23 marzo 1988, n. 364 della Corte Costituzionale, secondo la quale l’ignoranza della legge penale, se incolpevole a cagione della sua inevitabilità, scusa l’autore dell’illecito, vanno stabiliti i limiti di tale inevitabilità.

Per il comune cittadino tale condizione è sussistente ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto «dovere di informazione», attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia. Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una «culpa levis» nello svolgimento dell’indagine giuridica.

Per l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto.

(Nella fattispecie, relativa a reati urbanistici, la Corte ha confermato l’assoluzione pronunciata dal giudice di merito per mancanza dell’elemento soggettivo del reato, motivata dalla convinzione degli imputati dell’assenza del vincolo di inedificabilità, più volte affermata in provvedimenti del giudice amministrativo, nonché in specifici atti ufficiali del Ministero dei beni culturali e ambientali e del Comune interessato)» (Cass. sez. un., 18 luglio 1994, n. 8154).

—   «Nel caso di realizzazione abusiva di un impianto di serra che, per le sue caratteristiche, necessiti di concessione edilizia, non può essere escluso il reato sotto il profilo soggettivo, per errore sulla non necessità della concessione edilizia, perché nemmeno in virtù del criterio della ignoranza inevitabile, teorizzato nella sentenza 24 marzo 1988, n. 364 della Corte Costituzionale, è lecito scusare chi eserciti una impresa agricola, ancorché piccola (cioè una attività professionale assistita anche da organizzazioni di categoria) senza informarsi delle leggi penali che disciplinano la materia» (Cass., 2 maggio 1988, in Riv. pen., 1989, 413).

—  Potrà ritenersi scusabile l’errore sul fatto costitutivo di reato (cioè su un elemento della fattispecie concreta di esso), anche qualora sia la conseguenza di un’erronea rappresentazione di una realtà normativa assunta, però, nella sua veste descrittiva.

In questi casi l’errore sulla normativa assume efficacia scusante in quanto si risolve in un errore sul fatto, pur se alla base di tale errore vi è una falsa rappresentazione della fattispecie astratta.

L’agente, in sostanza, non erra sul divieto penale, bensì sulla condotta attuata, avendo della medesima una rappresentazione diversa dalla realtà a seguito di errore su una norma extrapenale che
riguarda unicamente il fatto, formulato in termini puramente descrittivi, e non anche il precetto.

Si pensi ad esempio, all’errore sulla sussistenza del permesso di costruire a seguito di erronea comunicazione del rilascio dello stesso.

In tali casi troverà applicazione la disciplina prevista dall’art. 47, ultima parte, cod. pen.

—  Potrà ritenersi scusabile, infine, il vero e proprio errore incolpevole di fatto, allorquando l’agente.

— in perfetta buona fede ed ignorando di porre in essere una condotta oggettivamente antigiuridica ponga in essere un’attività diversa da quella autorizzata e voluta, per fattori del tutto accidentali o per la impossibilità pratica di trasporre sul terreno, con assoluta precisione, le previsioni di progetto.

In tali casi la mancanza di coscienza e volontà dell’illecito escluderà che il comportamento difforme possa qualificarsi reato.

Esimenti.

Dottrina e giurisprudenza non appaiono concordemente orientate in ordine alla possibilità di ammettere che i comportamenti illegittimi in materia urbanistica ed edilizia possano essere scriminati da particolari situazioni che ne escludano l’illiceità penale.

Quanto allo stato di necessità (art. 54 cod. pen.), la Corte di Cassazione ha affermato che gli estremi di tale esimente non sono ipotizzabili, nel reato di costruzione abusiva, allorquando manchi l’attualità di un pericolo di danno alla persona, ben potendo l’agente ottenere con altri mezzi quanto è indispensabile per evitare il danno (Cass., sez. III: 22 febbraio 2001, Bianchi; 7 ottobre 1999, Verrusio; 8 ottobre 1998, Broccio).

—   «In materia edilizia, l’operatività dello stato di necessità per il reato di costruzione abusiva non va esclusa in linea di principio, potendosi riconnettere anche a situazioni strumentali strettamente connesse alla persona, quali l’esigenza di un alloggio, ma impone il controllo rigoroso dei requisiti della scriminante, così che essa non è ipotizzabile allorché il pericolo di restare senza abitazione sia concretamente evitabile attraverso i meccanismi del mercato o dello stato sociale, dovendosi escludere la sussistenza di ogni altra, concreta, possibilità di evitare il danno grave» (Cass., sez. III, 30 novembre 2011, n. 44407; 26 gennaio 2006, Passamonti).

—   «In materia di abusi edilizi e ambientali la configurabilità della scriminante dello stato di necessità, nella specie consistente nella mancanza di una casa, appare in concreto esclusa dal fatto che il pericolo del danno grave alla persona è evitabile chiedendo, in caso di terreno edificabile, la relativa autorizzazione mentre, in caso di terreno non edificabile, il diritto del cittadino a disporre di un’abitazione non può prevalere sull’interesse della collettività alla tutela del paesaggio e dell’ambiente» (Cass., sez. III, 20 settembre 2007, Ferraioli).

—   «In tema di operatività dello stato di necessità (art. 54 cod. pen.) con riferimento al reato di costruzione abusiva — premesso che per danno grave alla persona deve intendersi ogni danno grave ai suoi diritti fondamentali, ivi compreso quello all’abitazione — va tuttavia affermato che la scriminante non opera quando il pericolo di restare senza abitazione è evitabile, e cioè quando esiste la possibilità di soddisfare la necessità attraverso i meccanismi del mercato o dello Stato sociale. (Ha inoltre precisato la Corte che comunque occorre che il fatto commesso sia proporzionale al pericolo, e che l’imputato che invoca la causa di giustificazione ha l’onere di allegare tutti gli elementi concreti che configurano la sussistenza della scriminante)» (Cass., sez. III: 21 settembre 2001, Riccobono, in Riv. pen., 2002, 793; 2 dicembre 1997, n. 11030, Guerra).

—   «In tema di operatività dello stato di necessità con riferimento al reato di costruzione abusiva, pur dovendosi ritenere corretta una interpretazione di tale scriminante che si riferisca alla esigenza di un alloggio salubre ed idoneo a garantire condizioni abitative minime essenziali, occorre potere escludere in modo assoluto la sussistenza di ogni altra concreta possibilità, priva di disvalore penale, di evitare il danno» (Cass., sez. III, 6 ottobre 2000, Martinelli).

—   «In tema di reato di costruzione edilizia la necessità di procurarsi un alloggio idoneo non può rientrare nella causa di giustificazione prevista dall’art. 54 del codice penale il cui presupposto è l’esistenza di un grave pericolo “alla persona” (nel caso di specie è stato escluso che configurasse lo stato di necessità l’esigenza di sistemare convenientemente la propria famiglia abitante in un seminterrato)» (Cass., sez. III, 17 maggio 1990, n. 7015, Sinatra).

—   «In tema di abusivismo edilizio, la necessità di ottenere un alloggio non può rientrare nella causa di giustificazione prevista dall’art. 54 cod. pen., il cui presupposto è la concreta imminenza di un grave pericolo “alla persona”, non altrimenti evitabile» (Cass., sez. VI, 25 febbraio 1989, n . 3137, Gelsi).

—   «Deve essere escluso lo stato di necessità in relazione all’ampliamento di un fabbricato, senza il rilascio della concessione edilizia, motivato dalla circostanza che più persone erano costrette a vivere in un numero insufficiente di vani con pericolo della promiscuità.

Infatti, esulano dalla fattispecie tutte le condizioni di cui all’art. 54 cod. pen., specialmente la necessità di salvare sé ed altri da un pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo non altrimenti evitabile poiché l’inidoneità dell’alloggio si risolve in uno stato di disagio sia pure grave, ma tuttavia evitabile, secondo la comune esperienza, con i mezzi ordinariamente apprestabili ed eventualmente con la ricerca, temporanea o meno, di un’altra abitazione» (Cass., sez. III, 4 dicembre 1987, n. 12253, Iudicello).

—   «L’esistenza di motivi di salute del coniuge dell’autore dell’abuso edilizio (nella specie, patologia respiratoria che non gli avrebbe consentito di vivere in un ambiente inquinato) non rappresenta un pericolo concreto ed attuale di un danno grave per l’incolumità fisica della persona, tale da dover considerare assolutamente indispensabile, e non altrimenti evitabili, le violazioni delle disposizioni di legge in materia urbanistica» (Cass., sez. III, 22 giugno 2011, n. 25010, in Urbanistica e appalti, 2012, 481).

—   «Ai fini dell’art. 54 cod. pen., non è da escludere che tra i beni attinenti la personalità di un minore, e quindi da tutelare allorché sussista una minaccia di grave danno, vi sia quello di una corretta strutturazione della personalità, in sostanza di una adeguata educazione, in modo che il processo di crescita del minore non venga ostacolato o distorto nel senso di impedirgli di divenire un adulto normalmente strutturato.
(Fattispecie in cui la Suprema Corte ha ritenuto che esattamente i giudici di merito abbiano reputato che la promiscuità in cui una bambina tredicenne era costretta a vivere, con i genitori e due fratelli in una abitazione di soli due vani, potesse costituire danno grave e causa attuale, cioè sicuramente probabile, di un deterioramento pericoloso della sua personalità. La Corte è pervenuta ad annullamento con rinvio, della sentenza di condanna del padre per costruzione abusiva, sul requisito della non evitabilità del pericolo, non sembrando potersi affermare che unica azione in grado di evitarlo fosse quella di costruire un terzo vano senza concessione edilizia, in quanto, in attesa di questa, la bambina poteva alloggiare presso altri parenti o potevano essere adottate iniziative diverse)» (Cass., sez. III, 4 dicembre 1981, n. 10772, Potenziani).

—   «Il costruttore abusivo non può invocare lo status necessitatis della sua azione per fini sociali e di mercato relativi ai dipendenti della sua azienda; invero il pericolo di grave danno per costoro è ovviabile nell’ambito delle leggi sociali ed amministrative tutelanti l’efficienza della produzione industriale e la occupazione delle maestranze» (Cass., sez. III, 30 novembre 1983, n. 10152, Tognana).

La giurisprudenza di merito ha talvolta ammesso la possibilità di configurazione dell’esimente e — di fronte a fattispecie particolari di abusivismo cd. «povero» — ha addirittura ampliato l’ambito di applicabilità dell’art. 54 cod. pen.

Significative appaiono, in proposito, alcune pronunzie:

—   «Non è punibile a causa di stato di necessità chi, versando in condizioni di estrema indigenza, abbia costruito in proprio un alloggio minimo, privo di acqua e di servizi, al fine di evitare a sé e ai figli in tenera età grave ed attuale danno alle persone, non altrimenti evitabile, dal momento che non esista la possibilità di assegnazione di un’abitazione, cui pure si abbia diritto, né di un ricovero in un istituto che presenti un minimo di dignità per la persona con possibilità di convivenza per i componenti il nucleo familiare oltre l’eventuale periodo di alcuni giorni» (P. Napoli, 15 marzo 1978, in Giust. pen., 1979, II, 575).

—   «Non è punibile, per avere agito in stato di necessità, colui che ha effettuato lavori edilizi in totale difformità dalla relativa concessione al solo fine di creare un nuovo vano in aggiunta all’unico esistente, nel quale conviveva con la moglie e sei figli» (P. Vizzini, 6 dicembre 1979, in Nuovo dir., 1980, 258).

—   «È applicabile alle contravvenzioni di cui all’art. 17, lett. b), legge 28 gennaio 1977, n. 10 la scriminante dello stato di necessità, prevista dall’art. 54 c.p., nel caso in cui l’agente sia stato costretto a costruire per realizzare una casa igienicamente abitabile per sé e per il proprio genitore (nella specie, ultranovantenne, cieco e privo di una gamba)» (P. Foligno, 12 ottobre 1984, in Riv. pen., 1985, 311).

—   «È idonea ad escludere la sussistenza di reati edilizi, facendone venire meno l’antigiuridicità, l’effettiva ricorrenza di un comprovato stato di necessità risultante dall’innegabile esistenza di un pericolo attuale di un danno grave derivante, per mancanza di “alloggio cosiddetto minimo”, ad un intero e numeroso nucleo familiare costretto a vivere in indescrivibili, incredibili e disperate condizioni di precarietà abitativa ed igienico-sanitaria» (P. Niscemi, 22 novembre 1985, in Riv. giur. edilizia, 1986, I, 1066).

Secondo BETTIOL, deve ritenersi giustificato il fatto di chi proceda ad interventi non autorizzati, allorquando una situazione di pericolo imminente risulti accertata da un provvedimento della pubblica amministrazione che ordini l’esecuzione immediata di opere non dilazionabili.

MASUCCI e ROCCO DI TORREPADULA, anzi, sostengono che l’ordinanza contingibile ed urgente del Sindaco — in particolare — contiene implicitamente l’autorizzazione a compiere i lavori in essa indicati e sostituisce, pertanto, il titolo abilitativo edilizio pure per opere che modifichino l’aspetto del centro abitato.

Di parere contrario è, invece, IANNELLI, il quale afferma la necessità del permesso di costruire anche per l’esecuzione di un’ordinanza di urgenza, ritenendo però che — a prescindere dall’esistenza di una ordinanza siffatta — il reato edilizio potrebbe pur sempre essere escluso in relazione alla esimente dello stato di necessità.

Quanto all’esimente dell’adempimento di un dovere imposto da un ordine legittimo della pubblica autorità (art. 51 cod. pen.), con riferimento ai provvedimenti del giudice, la Corte Suprema ha ritenuto (Cass., 17-1-1967, in Giust. pen, 1967, II, 804) che — nelle ipotesi in cui (in sede possessoria o di denunzia di nuova opera o di danno temuto) venga ordinata l’esecuzione o la distruzione di un manufatto, per tutelare immediatamente una situazione di possesso o per ovviare ad un pericolo incombente — tali interventi non siano soggetti a preventiva licenza (ora permesso di costruire). La liceità delle opere eseguite, comunque, in quanto cautelari e provvisorie, sarà legata alla persistenza del provvedimento che le ha ordinate e resterà fermo, pertanto, l’obbligo di chiedere rituale permesso di costruire in relazione alle statuizioni del giudicato e di ripristinare lo status quo ante non appena venisse caducato il provvedimento provvisorio.

In tutte le ipotesi, invece, in cui una sentenza passata in giudicato disponga l’esecuzione di interventi edilizi, questi potranno essere effettuati soltanto nel pieno rispetto del regime permissorio, poiché spetta sempre all’amministrazione comunale accertare se il progetto relativo all’intervento disposto dal giudice sia o meno conforme alle norme urbanistiche ed edilizie, con conseguente possibilità di rifiutare il permesso di costruire nei casi di contrasto con detta normativa.

Circostanze attenuanti.

La Suprema Corte ha costantemente affermato la inapplicabilità, ai reati edilizi, dell’attenuante dei motivi di particolare valore morale o sociale prevista dall’art. 62, n. 1, cod. pen.

—   «In tema di circostanze del reato, la necessità di sopperire a bisogni familiari, lo scopo di procurare un alloggio alla propria famiglia, l’esigenza di superare le difficoltà esistenti per ottenere una concessione edilizia, essendo caratterizzati da uno scopo egoistico e non da finalità altruistiche, non sono sufficienti a costituire la base per l’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 1, cod. pen.
Tuttavia, possono essere valorizzati per il riconoscimento delle attenuanti generiche. (Fattispecie in materia di abusi edilizi, con particolare riferimento alla costruzione di un fabbricato per uso d’abitazione alla famiglia del reo)» (Cass., sez. III, 25 settembre 1989, n. 12851, Camerlingo).

—   «Nel caso di violazione dei sigilli apposti ad una costruzione abusiva non è applicabile al relativo reato l’attenuante di aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale per essere stato esso
commesso per realizzare una costruzione diretta a sopperire a ragionevoli ed indilazionabili necessità abitative dell’imputato proprietario e custode della costruzione medesima. Infatti la comune coscienza della società non giustifica la costruzione abusiva di un edificio per dare abitazione alla propria famiglia a ragione del danno che deriva da tale illecita azione ai prevalenti interessi pubblici inerenti alla corretta attuazione degli strumenti urbanistici ed alla esatta osservanza dei vincoli imposti dalle leggi — statali e regionali — a tutela di specifici interessi (paesaggistici, archeologici ecc.)» (Cass., sez. VI, 30 gennaio 1991, n. 1063, Napolitano).

—   «Al reato di costruzione abusiva non è applicabile la circostanza attenuante dell’aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale, qualora si sia costruito per dare abitazione alla propria famiglia. Invero la comune coscienza etica non giustifica che, per tale motivo, si costruisca un edificio abusivo, con conseguente danno per i prevalenti interessi pubblici inerenti alla pianificazione urbanistica» (Cass., sez. III, 18 novembre 1983, n. 9775, Salvatore).

—   «L’attenuante prevista dall’art. 62, n. 1, c.p. è applicabile quando la moralità ed utilità sociale del motivo, oltre ad essere tali obiettivamente, implicano una componente altruistica e comunitaria, che si contrappone al soddisfacimento di un personale ed egoistico interesse; ne deriva che al reato di costruzione abusiva, posto in essere per bisogno abitativo, è inapplicabile la circostanza in oggetto costituendo l’azione espressione di una pretesa individualistica, non favorevolmente valutabile secondo la concezione e le finalità delle comunità organizzate» (Cass., 26 ottobre 1987, n. 11225, Casiraro).

—   «Per l’applicazione della circostanza attenuante del motivo di particolare valore morale o sociale, non è sufficiente che il movente dell’azione sia suscettibile d’una valutazione etica o sociale positiva, ma è necessario che l’agente abbia operato per realizzare uno scopo spiccatamente nobile e altruistico in conformità alle direttive e alle finalità della comunità organizzata e quindi ai presenti ordinamenti sociali ed al loro assetto istituzionale.
La circostanza non è dunque applicabile in caso di contravvenzione per costruzione edilizia abusiva, dovuta a gravi esigenze abitative del soggetto in relazione alla scarsità di offerte del mercato
edilizio compatibili con le sue condizioni economiche» (Cass., 7 febbraio 1984, in Giust. pen., 1984, II, 402).

Quanto all’attenuante del danno patrimoniale di particolare tenuità prevista dall’art. 62, n. 4, cod. pen.:

—   «Con la sentenza di condanna per reati urbanistici o edilizi non è concedibile la attenuante del danno di particolare tenuità, ai sensi dell’art. 62, n. 4, cod. pen., atteso che detta attenuante è applicabile solo ai delitti e non anche ai reati ambientali aventi natura contravvenzionale» (Cass., sez. III, 15 aprile 2002, n. 14290, Di Franca, in RivistAmbiente, 2002, 1361).

—   «A seguito della nuova formulazione dell’art. 62, n. 4, cod. pen., recata dall’art. 2 legge 7-2-1990, n. 19, la circostanza attenuante del danno patrimoniale di particolare tenuità può essere concessa non solo nei tradizionali reati contro il patrimonio, ma anche in quelli che «comunque offendono il patrimonio».
Pertanto, poiché i reati ambientali possono cagionare danni economicamente valutabili, salvo la prova nel caso concreto, e tali danni possono presentare una maggiore o minore gravità, appare ragionevole in sede penale che di questa circostanza si possa tener conto.
(Nella specie, relativa a rigetto di ricorso, il P.M. aveva lamentato la concessione dell’attenuante «de qua» per reati — opere edilizie in zona soggetta a vincolo paesistico senza concessione e senza nulla osta — dai quali non deriverebbero «danni economicamente valutabili»)» (Cass., sez. III, 1 agosto 1992, n. 1206).

—   «La circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità concerne soltanto i delitti: non è pertanto applicabile alle contravvenzioni edilizie» (Cass., sez. III, 26 maggio 1994, n. 6187).

In riferimento all’attenuante della riparazione del danno prevista dall’art. 62, n. 6, cod. pen.:

—   «La circostanza attenuante della riparazione del danno non è applicabile al reato edilizio quando la demolizione del manufatto abusivo sia posta in essere a seguito dell’accertamento della violazione ed a notevole distanza di tempo dalla realizzazione dell’illecito, sia perché manca il necessario requisito soggettivo della spontaneità del ravvedimento, sia perchè nel periodo di mantenimento ed utilizzazione dell’opera, e prima dell’elisione od attenuazione delle conseguenze del reato, la condotta illecita posta in essere dal reo ha realizzato appieno la propria offensività» (Cass., sez. III, 22 ottobre 2010, n. 41518).

—   «La circostanza attenuante della avvenuta riparazione del danno non è applicabile ai reati edilizi quando l’abbattimento volontario dell’opera abusiva sia avvenuto in epoca posteriore all’emanazione
dell’ordinanza sindacale che impone la demolizione delle opere, la cui inottemperanza avrebbe determinato l’acquisizione del sito al patrimonio comunale» (Cass., sez. III, 13 luglio 2011, n. 29991).

—   «La circostanza attenuante della riparazione del danno può essere ritenuta in caso di spontanea ed efficace esecuzione ad opera del reo, a lavori ultimati, di un’ulteriore attività edilizia con finalità ripristinatorie o di adeguamento del manufatto abusivo alle prescrizioni urbanistico-edilizie violate» (Cass., sez. III, 24 settembre 2009, n. 43844, Di Natale, in Riv. giur. edilizia, 2010, I, 1020).

Soggetti attivi.

Fino ad epoca recente la giurisprudenza prevalente della Corte Suprema aveva ravvisato il carattere proprio dei reati di violazione della legge edilizia (vedi Cass., sez. III: 26-8-2004, n. 35084, Barreca, 14-6-1999, n. 7626, Iacovelli; 12-3-1999, n. 201, Quaranta; 24-8-1988, n. 9053, Di Santo; 27-3-1980, n. 4216, Tibollo) ed in particolare la III sezione — con la sentenza 15-10-1988, n. 9961, Maglione aveva affermato che «sussiste una stretta correlazione tra l’obbligo di condotta imposto dall’art. 6 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 ai soggetti in esso indicati e le sanzioni di cui all’art. 20 sì da configurare il reato di costruzione senza la concessione edilizia, o in contrasto con le prescrizioni urbanistiche o edilizie, come reato proprio; invero il precetto penale è diretto non a “chiunque”, ma soltanto a coloro che, in relazione all’attività edilizia, rivestono una determinata posizione giuridica o di fatto. Tale figura di reato non esclude il concorso di soggetti diversi dai destinatari degli obblighi previsti dall’art. 6 compreso il sindaco che con la concessione illegittima abbia posto in essere la condizione operativa della violazione di quegli obblighi».

Diverso orientamento era stato espresso, invece, sempre dalla III sezione della Cassazione, con la sentenza 1 luglio 1983, n. 6181, Tornabene, ove era stato affermato che «in tema di destinatari del precetto di cui all’art. 17, lett. b), della legge 28 gennaio 1977, n. 10, sull’edificabilità dei suoli, la norma predetta incrimina “i casi di esecuzione dei lavori in totale difformità o in assenza della concessione edilizia”, senza apposita qualificazione dell’agente.

Pertanto deve essere compreso nella sfera dei destinatari qualunque operatore che comunque esplichi una condotta causalmente rilevante nella modificazione della realtà proibita dalla norma, con la consapevolezza della mancanza o della difformità del titolo legittimativo o con colpevole omissione del relativo accertamento».

La teoria che riconosceva alle contravvenzioni edilizie la natura di «reati propri» pone le previsioni sanzionatorie dell’art. 44 del T.U. n. 380/2001 (ma già degli artt.: 41 della legge n. 1150/1942, 17 della legge n. 10/1977, 20 della legge n. 47/1985) in stretta connessione con la disposizione dell’art. 29 dello stesso T.U. (già degli artt.: 31, ultimo comma, della legge n. 1150/1942 e 6 della legge n. 47/1985), che individua nel titolare del permesso di costruire, nel committente, nel costruttore e nel direttore dei lavori (con peculiari specificazioni in relazione a tale ultima figura) i soggetti responsabili della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano, al permesso di costruire ed alle modalità esecutive da esso stabilite.

Solo tali soggetti, individuati per il possesso di particolari qualità, potrebbero rispondere penalmente dell’esecuzione di un’opera non conforme alla disciplina urbanistico-edilizia, salvo l’eventuale concorso di altre persone secondo i principi che regolano la partecipazione dell’extraneus al reato proprio commesso da chi riveste la qualifica richiesta dalla norma incriminatrice.

Gli argomenti principali posti a sostegno di tale tesi:
 
—   si incentrano anzitutto sul presupposto che l’oggetto giuridico tutelato dai reati edilizi sarebbe da individuarsi nell’interesse formale della pubblica amministrazione al controllo delle attività che comportano trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio. I reati medesimi, dunque, integrerebbero fattispecie incriminatrici di comportamenti inosservanti di obblighi amministrativi e, poiché i soggetti costituiti dal legislatore «garanti» del rispetto delle modalità di esercizio dell’attività edilizia sarebbero quelli indicati nell’art. 29 del T.U. dell’edilizia, solamente questi potrebbero essere considerati soggetti attivi delle contravvenzioni previste dall’art. 44, lett. a) e b), dello stesso T.U.;
si riferiscono, inoltre, alla stessa dogmatica del reato proprio, rilevando che in esso la norma incriminatrice, attraverso il riferimento al soggetto qualificato, attribuisce rilevanza ad una situazione che mette detto soggetto nelle condizioni di aggredire il bene tutelato in modo particolarmente intenso ovvero secondo modalità che ad altri soggetti non sono accessibili. In particolare, per le contravvenzioni edilizie, si assume che «il riferimento alla particolare qualità soggettiva sembra rispondere all’esigenza di individuare un centro di imputazione di obblighi» finalizzati alla tutela dell’interesse protetto. Il legislatore sarebbe così pervenuto alla delimitazione di specifici soggetti dotati dei poteri necessari ad assicurare detta tutela effettiva.

Si afferma, altresì, che «il principio di personalità della responsabilità penale, previsto dall’art. 27 della Costituzione, verrebbe seriamente compromesso qualora tali obblighi di tutela venissero imposti a chiunque, a prescindere dalla disponibilità degli effettivi poteri di tutela».

La Cassazione penale, però, nelle decisioni più recenti — a partire dalla sentenza 28 febbraio 2007, n. 8407, Roberto ed altri — ha confutato le argomentazioni anzidette e ha affermato che:

a) I reati edilizi attualmente previsti dall’art. 44, lett. b) e c), del T.U. n. 380/2001 (il cui regime era anteriormente posto dall’art. 20 della legge n. 47/1985, dall’art. 17 della legge n. 10/1977 e dall’art. 41 della legge n. 1150/1942) sono per lo più reati comuni (sia pure con alcune eccezioni) e, in quanto tali, possono essere commessi da qualsiasi soggetto.

Significativo è, anzitutto, lo stesso testo delle norme incriminatrici, formulato impersonalmente, ma (non essendo sufficiente arrestarsi alla espressione della legge) anche un accurato esame del complessivo sistema sanzionatorio penale porta ad escludere una generalizzata configurazione quali «reati propri» delle contravvenzioni in esame.

Si pensi, ad esempio, che non può essere considerato «committente» né «costruttore» colui che esegua personalmente i lavori abusivi (realizzazione monosoggettiva dell’illecito nei casi di più modeste trasformazioni urbanistiche).

Deve rilevarsi, poi, che l’attuale formulazione dell’art. 29 del T.U. n. 380/2001 — pur individuando nel titolare del permesso di costruire, nel committente e nel costruttore i soggetti «responsabili … della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano …» e, unitamente al direttore dei lavori, alle previsioni «del permesso di costruire e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo» — limita comunque l’ambito della loro responsabilità «ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo» (il capo I del titolo IV), dove non è prevista la disciplina penale, che è collocata, invece, nel capo II.

L’oggetto della tutela penale apprestata dalle norme incriminatrici in esame, infine, non va individuato esclusivamente nell’interesse strumentale della P.A. al controllo delle attività che comportano trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, bensì e principalmente nella «salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio» medesimo, e tale bene giuridico può essere indifferentemente offeso da chiunque compia attività siffatte e non soltanto da determinati soggetti che si trovino in possesso delle particolari qualità soggettive indicate dall’art. 29 del T.U. dell’edilizia.

La Corte ha affermato, inoltre, che non può giungersi a ritenere, però, che la previsione dell’art. 29 del T.U. n. 380/2001 addirittura estenda l’ambito dei possibili responsabili dei reati edilizi, configurando, per i soggetti qualificati ivi indicati, l’obbligo di intervenire quali garanti del bene tutelato e, conseguentemente, una autonoma forma di responsabilità colposa per omesso impedimento dei comportamenti descritti nelle fattispecie incriminatrici, fino a ravvisare, per essi, un reato omissivo improprio colposo anche quando non siano consapevoli di concorrere con la propria condotta omissiva alla condotta altrui integrante gli estremi di una contravvenzione edilizia.

In giurisprudenza:

—   «Il committente di opere edilizie ha l’obbligo personale di munirsi dei necessari titoli abilitativi e delle connesse autorizzazioni, sicché l’averne affidato l’esecuzione ad un imprenditore o ad un artigiano non esclude per ciò solo la responsabilità autonoma dello stesso» (Cass. pen., sez. III, 24 marzo 2010, n. 24241, Mieli, in Riv. pen., 2010, 1268).

b) La natura di reati propri non può escludersi, invece:
 
—  per alcune delle molteplici possibili violazioni riconducibili alle previsioni della lettera a) dell’art. 44 del T.U. n. 380/2001;

—  per la contravvenzione di inottemperanza all’ordine di sospensione dei lavori, di cui alla lettera b), ultima previsione, dell’art. 44 del T.U. n. 380/2001, che può essere commessa soltanto da colui o da coloro cui il provvedimento amministrativo è rivolto (con eventuale possibilità di concorso ed applicazione dei principi di cui all’art. 117 cod. pen.);

—  per le violazioni ascrivibili al direttore dei lavori, la cui responsabilità è limitata alle sole difformità fra l’opera eseguita e le previsioni e le modalità esecutive stabilite dal permesso di costruire e per il quale la legge ritiene pienamente scriminante l’effettivo recesso tempestivo e formalmente comunicato.

In giurisprudenza:
 
—   «In tema di disciplina urbanistica ed edilizia, i reati previsti dall’art. 44 D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 devono essere qualificati come reati comuni e non come reati a soggettività ristretta, salvo che per i fatti commessi dal direttore dei lavori e per la fattispecie di inottemperanza all’ordine di sospensione dei lavori impartito dall’autorità amministrativa» (Cass., sez. III: 27 giugno 2012, n. 25361; 19 dicembre 2007, n. 47083).

—   «In tema di reati edilizi, la mera qualifica d’usufruttuario dell’immobile abusivamente realizzato è insufficiente ai fini dell’affermazione della responsabilità penale per il reato di cui all’art. 44, D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, in quanto è necessario un quid pluris che consenta l’attribuzione al medesimo della qualifica di committente ovvero di compartecipe con quest’ultimo nella commissione del reato« (Cass., pen., sez. III, 24 ottobre 2008, n. 45072, Lavanco).

—   «L’amministratore di una società di capitali ha il dovere di garantire l’integrità del patrimonio sociale e deve intervenire tutte le volte in cui tale integrità può essere compromessa.
La commissione di reati da parte di amministratori può esporre la società al rischio di azioni risarcitorie nei suoi confronti.
Sicché, l’amministratore di diritto di una società di capitali risponde di concorso nei reati edilizi commessi dall’amministratore di fatto se per dolo o per semplice negligenza (ossia il fatto di avere omesso di vigilare) non ha impedito che l’evento si verificasse» (Cass., sez. III, 26 gennaio 2009, n. 3475, Pistelli).

Nel contesto dianzi delineato va esaminata la condotta degli esecutori materiali dei lavori; quei soggetti (muratori ed operai), cioè, la cui attività si svolga alle dipendenze dell’imprenditore che abbia assunto la qualifica di costruttore.

Al riguardo va osservato che:

a) Se l’atteggiamento psichico di coloro che collaborano alla realizzazione dell’illecito, fornendo un contributo morale o materiale alla costruzione abusiva sia pure nella mera qualità di dipendenti, consiste nella volontà di commettere un abuso edilizio, stante la consapevolezza che l’attività posta in essere viene effettuata in assenza o in difformità dal prescritto titolo abilitativo, ciascuno deve rispondere, a titolo di dolo, della relativa contravvenzione, ricorrendo tutti gli estremi (oggettivi e soggettivi) del concorso di persone nel reato (quanto alla consapevolezza dell’abusività dei lavori, vedi Cass., sez. III, 14 giugno 1999, n. 7626, Iacovelli, in Riv. giur. edilizia, 2000, I, 973).
In questo caso neppure può valere ad escludere la responsabilità dei meri prestatori d’opera il fatto che essi abbiano realizzato la condotta illecita per ottemperare alle disposizioni impartite dal datore di lavoro, in quanto l’efficacia scriminante riconducibile alle previsioni dell’art. 51 cod. pen. non afferisce a rapporti, sia pure gerarchici, di natura privatistica.

b) Più delicata è la questione se l’omesso, negligente accertamento dell’esistenza del provvedimento edilizio abilitante, anche da parte degli esecutori materiali dell’opera che non rivestono la qualifica di costruttore, integri gli estremi della colpa e possa configurare un’ipotesi di concorso colposo nell’illecito urbanistico.
Al riguardo la giurisprudenza pressoché unanime considera configurabile il concorso colposo nelle contravvenzioni e — stabilendo l’art. 42, 4° comma, cod. pen. la loro punibilità indifferentemente a titolo di dolo o di colpa [si ricordi che dottrina e giurisprudenza considerano altresì ammissibile, in linea di principio, pure il concorso dell’estraneo nel reato proprio] — deve ammettersi che più persone possano partecipare alla commissione di una contravvenzione anche se la loro condotta è sorretta da atteggiamenti psichici eterogenei.

In caso di mancanza del permesso di costruire è stato ritenuto, pertanto, che anche i meri esecutori materiali possono rispondere direttamente per colpa con riferimento alla disciplina posta dall’art. 110 cod. pen. (salvi i casi di erroneo convincimento scusabile), dovendo essi sottostare all’onere di accertare l’intervenuto rilascio del provvedimento abilitante, onere che — come si è detto — non incombe soltanto sui soggetti indicati dall’art. 29 del T.U. n. 380/2001 (vedi, in tal senso, Cass., sez. III: 13 maggio 2013, n. 20383, in Riv. giur. edilizia, 2013, I, 714; 26-8-2004, n. 35084, Barreca, in Dir. pen. e proc., 2005, 581).

Non è in questione, pertanto, la individuazione della sussistenza di un obbligo giuridico di impedimento dei reati ai sensi dell’art. 40 cpv. cod. pen.

Per i lavori eseguiti in difformità dal titolo, invece, la legge ha attribuito espressamente al direttore dei lavori l’obbligo di curare la corrispondenza dell’opera al progetto, sicché la diligenza richiesta agli operai non può estendersi alla verifica dell’osservanza puntuale delle previsioni e prescrizioni assentite (fatti salvi i casi di realizzazione di piani ulteriori o parti aggiuntive rilevanti, nonché quelli di opere assolutamente non riferibili a quelle assentite).

Deve escludersi, altresì, la responsabilità degli esecutori materiali per il mancato rispetto colposo delle norme urbanistiche e di piano, laddove si consideri che da tale responsabilità è esonerato già il direttore dei lavori, che è organo tecnico ben più qualificato.

In giurisprudenza:

—   «In tema di reati edilizi, e specificamente di lavori di costruzione edilizia in assenza del relativo permesso, gli esecutori materiali dei lavori, che prestano la loro attività alle dipendenze del costruttore, possono concorrere, per colpa, nella commissione dell’illecito per il caso di mancanza del permesso di costruire, se non adempiono all’onere di accertare l’intervenuto rilascio del provvedimento abilitante, ma vanno esenti da responsabilità sia in caso di lavori eseguiti in difformità dal titolo, dal momento che la legge ha attribuito espressamente al direttore dei lavori l’obbligo di curare la corrispondenza dell’opera al progetto, sia in caso di mancato rispetto colposo delle norme urbanistiche e di piano, perché dalla responsabilità è esonerato già il direttore dei lavori, che è organo tecnico ben più qualificato» (Cass., sez. III, 28 febbraio 2007, n. 8407, Roberto ed altri).

—   «In tema di reati edilizi, è responsabile del reato di costruzione abusiva non solo l’esecutore dei lavori che collabori all’edificazione delle opere principali ma anche quello che si limiti a svolgere lavori di completamento dell’immobile (quali la pavimentazione, l’intonacatura, gli infissi), sempre che sia ravvisabile un profilo di colpa collegato alla mancata conoscenza del carattere abusivo dei lavori» (Cass. pen., sez. III, 12 novembre 2008, n. 48025, Ricardi).

La giurisprudenza ha ammesso, infine, che anche altre persone possano inserirsi con la loro condotta nella consumazione del reato di violazione della legge edilizia, ponendo in essere attività che comunque contribuiscano a dare vita al fatto di costruzione abusiva.

—   «L’indicazione dei soggetti responsabili in base all’art. 6 L. n. 47 del 1985 per le violazioni della normativa urbanistica non esclude che, oltre al direttore dei lavori ed all’appaltatore, possa essere ritenuta la responsabilità di un altro soggetto, interessatosi attivamente all’edificazione dell’immobile abusivo» (Cass., sez. III, 8 maggio 1992, in Riv. giur. edilizia, 1992, I, 1004).

—   «La vendita di un prefabbricato non è di per sé sufficiente ad integrare gli estremi della contravvenzione di cui agli artt. 31, 41 della legge urbanistica; quando però il venditore presta la propria assistenza tecnica per il montaggio del prefabbricato (personale specializzato e macchinari) egli partecipa alla realizzazione dell’opera abusiva» (Cass., 26 gennaio 1981, in Riv. pen., 1981, 580).

—   «Quando il subappaltatore non lavora in situazione di assoluta autonomia, anche il subappaltante che si ingerisca concretamente nella realizzazione delle opere edilizie, deve rispondere, quanto meno a titolo di concorso nella consumazione del reato urbanistico, incombendo anche su costui l’obbligo di controllare che i lavori siano eseguiti previo rilascio della prescritta concessione e in conformità alla stessa» (Cass., 19 febbraio 1988, in Riv. pen., 1989, 852).

—   «In materia edilizia, risponde del reato di cui all’art. 20 L. 28 febbraio 1985, n. 47, ora sostituito dall’art. 44 D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, il dirigente dell’area tecnica comunale che abbia rilasciato una concessione edilizia (ora permesso di costruire) illegittima, atteso che questi, in quanto incaricato in ragione del proprio ufficio del rilascio di quello specifico atto, è titolare in via diretta ed immediata della relativa posizione di garanzia che trova il proprio fondamento normativo nell’art. 40 c.p.» (Cass., sez. III, 25 marzo 2004, D’Ascanio). "

Fonte laleggepertutti.it, qui:

http://www.laleggepertutti.it/107695_il-reato-di-abuso-edilizio
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Avvocato penalista - L'abuso edilizio, il reato di cui all'Art. 20 L. 28 febbraio 1985, n°. 47, come sostituito dall'Art. 44 D.P.R. 6 giugno 2001, n°. 380.
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