Avvocato penalista e presunzione di innocenza. |
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L'avvocato penalista e la presunzione di innocenza.
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Si è ormai soliti indicare così ossia "presunzione di innocenza", appunto, con espressione, invero, alquanto impropria, entrata nell'uso corrente anche degli addetti ai lavori (avvocati e magistrati), il noto principio di rango costituzionale sancito dall'art. 27 della Costituzione, il quale, dopo avere stabilito, al primo comma, che: "La responsabilità penale è personale.", al secondo comma, così testualmente recita: "L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva".
La Costituzione della Repubblica Italiana ha sancito il cosiddetto principio di non colpevolezza, che significa, in punto di sistematica del diritto, un quid di alquanto diverso, da un punto di vista strettamente giuridico, dal più riduttivo ed incostituzionale concetto di presunzione di innocenza, per quanto qui di seguito si dirà.
Secondo questo principio costituzionale, l’imputato non è e non si può considerare colpevole, dunque, se non (e solo) dopo che sia intervenuta una sentenza di condanna definitiva, ritualmente emanata da un giudice.
Per "condanna definitiva", poi, si intende una sentenza di condanna che sia già passata in giudicato, e, cioè, una sentenza avverso la quale non è più possibile esperire alcuno dei mezzi di impugnazione cosiddetti ordinari, quali l'appello od il ricorso per Cassazione.
Pare che - la forma dubitativa s'impone, attese le tante inesattezze storiche tramandateci - i primi studi protesi ad affermare la necessità di introdurre nel sistema processuale penale italiano la presunzione d'innocenza, risalgano al XVIII° secolo e che siano dovuti alle opere di Pietro Verri e di Cesare Beccaria.
La presunzione di innocenza, intesa come regola di giudizio, sembra sia nata negli ordinamenti giuridici di tradizione anglosassone, nei quali la libertà personale dell’imputato ha ricevuto una particolare tutela, al punto da non richiedere la necessità della presunzione di innocenza, considerata una garanzia superflua.
La presunzione di innocenza, intesa come regola di trattamento dell’imputato, dovrebbere risalire agli ordinamenti di tradizione euro-continentale, al pensiero illuminista e alla rivoluzione francese.
Molto interessanti i dibattiti svoltisi in dottrina nel nostro Paese tra Scuola Positiva e Scuola Classica, prima, e, dopo l'avvento della legislazione fascista, con l’affermarzione della Scuola tecnico-giuridica.
Solo la Costituzione ha elevato la "presunzione di innocenza" a principio cardine del nostro ordinamento.
Per meglio comprendere l'evoluzione dell'idea e come si sia arrivati, poi, alla sua attuale formulazione, come norma giuridica di rango costituzionale, si vedano i lavori dell'Assemblea costituente.
L'analisi approfondita ed obiettiva dell’articolo 27, secondo comma, della Costituzione, rende bene il profilo della norma, sia se intesa quale regola di giudizio, che se intesa come regola di trattamento.
Quale regola di giudizio, essa implica che l’eventuale inerzia probatoria dell’imputato, di per sè a sola, non è suscettiva di produrre conseguenze per lui sfavorevoli, poiché, l’adempimento di una attività probatoria a propria difesa non può costituire un onere a carico dell'imputato, ma solo un suo diritto.
Come regola di trattamento, invece, essa comporta che l'imputato, anche se in custodia cautelare, non può essere trattato alla medesima stregua di un normale condannato "definitivo".
Ciò nonostante, per il nostro ordinamento, il legislatore ordinario ha la facoltà di introdurre delle particolari norme in materia di misure cautelari personali, per ipotesi determinate, esulanti dalla mera soddisfazione di una comune esigenza cautelare, quando siano protese a colpire reati di particolare gravità od efferatezza, come è avvenuto, ad esempio, in tema di reati di associazione per delinquere di stampo mafioso, previsti dall'art. 416 bis c.p., e/o per le connesse ipotesi di esigenza del carcere duro previste dall’art. 41 bis della nostra legislazione in materia di ordinamento penitenziario, conseguenziali alle prime.
L'onere della prova circa la commissione del fatto delittuoso e la sua riconducibilità alla sfera di responsabilità dell'imputato, stante anche il disposto del primo comma dell'art. 27 della Costituzione, spetta alla pubblica accusa, impersonata dal pubblico ministero, che ricerca e raccoglie le prove necessarie nella fase delle indagini preliminari e le porta a sostegno della tesi d'accusa nel processo penale.
Non è l'imputato, dunque, a dover dimostrare la propria innocenza o, meglio, non colpevolezza, ma è compito del pubblico ministero dimostrarne la responsabilità, colposa o dolosa, almeno in linea di principio, poichè la non colpevolezza si presume, mentre la colpevolezza deve essere provata.
Un principio fondamentale e di notevole importanza per il nostro processo penale italiano, in ciò evidenziato ancor più dalla sua elevazione a norma di rango costituzionale; discende non solo la regola in base alla quale l'onere di provare la colpevolezza dell’imputato incombe sull’accusa, ma anche una seconda regola base, secondo la quale ogni qual volta la pubblica accusa non riesca a o non abbia sufficienti elementi per provare la colpevolezza dell’imputato, quest’ultimo deve essere assolto.
Quest'ultimo principio non costituisce una riproduzione pressocchè automatica e costante nel nostro ordinamento giuridico dell'antica probatio affirmanti incumbit (la prova incombe su chi afferma), di cui all'ordinamento giuridico romano, come ci è dato di riscontrare nel "Digesto" e nel "Corpus Iuris Civilis", poichè nel nostro ordinamento si distingue e si tiene conto anche della tipologia della specifica affirmatio, nel senso del se si tratti di un'accusa o di una affermazione di innocenza o di non colpevolezza; nel primo caso, è valido e trova applicazione anche da noi il suddetto principio di diritto romano, mentre, nel caso in cui si tratti di una affermazione di innocenza o di non colpevolezza, si presume che essa sia vera fino a prova contraria, in base ai doveri di solidarietà economica, politica e sociale e della funzione della Repubblica di riconoscere i diritti soggettivi di ognuno, di cui all'art. 2 della Costituzione, nonchè alla pari dignità ed eguaglianza davanti alla legge dei cittadini, di cui all'art. 3 della Costituzione.
In ossequio ai principi costituzionali in esame, il nostro legislatore ordinario ha sentito la necessità di adeguare l'ordinamento processuale penale ad essi - ma solo dopo 40 anni dall'entrata in vigore della Costituzione - e, tra gli altri, ha introdotto nel corpo del codice procedura penale del 1988, l’articolo 530, a mente del quale il giudice deve pronunciare sentenza di assoluzione, indicandone la causa nel dispositivo, non solo quando il fatto non sussiste; o l’imputato non lo ha commesso; o il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato; od il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per un'altra ragione; ma ogni qual volta manchi o sia insufficiente o contraddittoria la prova che il fatto sussista, che l’imputato lo abbia commesso, che il fatto costituisca reato o sia previsto dalla legge come reato o che il reato sia stato commesso da persona imputabile.
Il giudice, infine, deve pronunciare sentenza di assoluzione ogni qual volta il fatto sia stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità o vi sia il dubbio sull’esistenza delle stesse.
In ogni altro caso, il giudice deve pronunciare sentenza di condanna (ai sensi degli articoli 533, 535 e/o seguenti, del codice di procedura penale, a seconda degli specifici casi) quando l’imputato risulta colpevole del reato ascrittogli.
Questo qualcos'altro è la sentenza definitiva, cioè la sentenza che non è più soggetta ad alcuno dei mezzi di impugnazione ordinari, la quale potrà confermare la non colpevolezza, "presunta" fino alla sua pubblicazione; oppure la colpevolezza; oppure nè l'innocenza, nè la colpevolezza, perchè, ad esempio, mancano o non sono sufficienti le prove per stabilire tanto l'una quanto o l'altra.
Secondo questo principio costituzionale, l’imputato non è e non si può considerare colpevole, dunque, se non (e solo) dopo che sia intervenuta una sentenza di condanna definitiva, ritualmente emanata da un giudice.
Per "condanna definitiva", poi, si intende una sentenza di condanna che sia già passata in giudicato, e, cioè, una sentenza avverso la quale non è più possibile esperire alcuno dei mezzi di impugnazione cosiddetti ordinari, quali l'appello od il ricorso per Cassazione.
Pare che - la forma dubitativa s'impone, attese le tante inesattezze storiche tramandateci - i primi studi protesi ad affermare la necessità di introdurre nel sistema processuale penale italiano la presunzione d'innocenza, risalgano al XVIII° secolo e che siano dovuti alle opere di Pietro Verri e di Cesare Beccaria.
La presunzione di innocenza, intesa come regola di giudizio, sembra sia nata negli ordinamenti giuridici di tradizione anglosassone, nei quali la libertà personale dell’imputato ha ricevuto una particolare tutela, al punto da non richiedere la necessità della presunzione di innocenza, considerata una garanzia superflua.
La presunzione di innocenza, intesa come regola di trattamento dell’imputato, dovrebbere risalire agli ordinamenti di tradizione euro-continentale, al pensiero illuminista e alla rivoluzione francese.
Molto interessanti i dibattiti svoltisi in dottrina nel nostro Paese tra Scuola Positiva e Scuola Classica, prima, e, dopo l'avvento della legislazione fascista, con l’affermarzione della Scuola tecnico-giuridica.
Solo la Costituzione ha elevato la "presunzione di innocenza" a principio cardine del nostro ordinamento.
Per meglio comprendere l'evoluzione dell'idea e come si sia arrivati, poi, alla sua attuale formulazione, come norma giuridica di rango costituzionale, si vedano i lavori dell'Assemblea costituente.
L'analisi approfondita ed obiettiva dell’articolo 27, secondo comma, della Costituzione, rende bene il profilo della norma, sia se intesa quale regola di giudizio, che se intesa come regola di trattamento.
Quale regola di giudizio, essa implica che l’eventuale inerzia probatoria dell’imputato, di per sè a sola, non è suscettiva di produrre conseguenze per lui sfavorevoli, poiché, l’adempimento di una attività probatoria a propria difesa non può costituire un onere a carico dell'imputato, ma solo un suo diritto.
Come regola di trattamento, invece, essa comporta che l'imputato, anche se in custodia cautelare, non può essere trattato alla medesima stregua di un normale condannato "definitivo".
Ciò nonostante, per il nostro ordinamento, il legislatore ordinario ha la facoltà di introdurre delle particolari norme in materia di misure cautelari personali, per ipotesi determinate, esulanti dalla mera soddisfazione di una comune esigenza cautelare, quando siano protese a colpire reati di particolare gravità od efferatezza, come è avvenuto, ad esempio, in tema di reati di associazione per delinquere di stampo mafioso, previsti dall'art. 416 bis c.p., e/o per le connesse ipotesi di esigenza del carcere duro previste dall’art. 41 bis della nostra legislazione in materia di ordinamento penitenziario, conseguenziali alle prime.
L'onere della prova circa la commissione del fatto delittuoso e la sua riconducibilità alla sfera di responsabilità dell'imputato, stante anche il disposto del primo comma dell'art. 27 della Costituzione, spetta alla pubblica accusa, impersonata dal pubblico ministero, che ricerca e raccoglie le prove necessarie nella fase delle indagini preliminari e le porta a sostegno della tesi d'accusa nel processo penale.
Non è l'imputato, dunque, a dover dimostrare la propria innocenza o, meglio, non colpevolezza, ma è compito del pubblico ministero dimostrarne la responsabilità, colposa o dolosa, almeno in linea di principio, poichè la non colpevolezza si presume, mentre la colpevolezza deve essere provata.
Un principio fondamentale e di notevole importanza per il nostro processo penale italiano, in ciò evidenziato ancor più dalla sua elevazione a norma di rango costituzionale; discende non solo la regola in base alla quale l'onere di provare la colpevolezza dell’imputato incombe sull’accusa, ma anche una seconda regola base, secondo la quale ogni qual volta la pubblica accusa non riesca a o non abbia sufficienti elementi per provare la colpevolezza dell’imputato, quest’ultimo deve essere assolto.
Quest'ultimo principio non costituisce una riproduzione pressocchè automatica e costante nel nostro ordinamento giuridico dell'antica probatio affirmanti incumbit (la prova incombe su chi afferma), di cui all'ordinamento giuridico romano, come ci è dato di riscontrare nel "Digesto" e nel "Corpus Iuris Civilis", poichè nel nostro ordinamento si distingue e si tiene conto anche della tipologia della specifica affirmatio, nel senso del se si tratti di un'accusa o di una affermazione di innocenza o di non colpevolezza; nel primo caso, è valido e trova applicazione anche da noi il suddetto principio di diritto romano, mentre, nel caso in cui si tratti di una affermazione di innocenza o di non colpevolezza, si presume che essa sia vera fino a prova contraria, in base ai doveri di solidarietà economica, politica e sociale e della funzione della Repubblica di riconoscere i diritti soggettivi di ognuno, di cui all'art. 2 della Costituzione, nonchè alla pari dignità ed eguaglianza davanti alla legge dei cittadini, di cui all'art. 3 della Costituzione.
In ossequio ai principi costituzionali in esame, il nostro legislatore ordinario ha sentito la necessità di adeguare l'ordinamento processuale penale ad essi - ma solo dopo 40 anni dall'entrata in vigore della Costituzione - e, tra gli altri, ha introdotto nel corpo del codice procedura penale del 1988, l’articolo 530, a mente del quale il giudice deve pronunciare sentenza di assoluzione, indicandone la causa nel dispositivo, non solo quando il fatto non sussiste; o l’imputato non lo ha commesso; o il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato; od il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per un'altra ragione; ma ogni qual volta manchi o sia insufficiente o contraddittoria la prova che il fatto sussista, che l’imputato lo abbia commesso, che il fatto costituisca reato o sia previsto dalla legge come reato o che il reato sia stato commesso da persona imputabile.
Il giudice, infine, deve pronunciare sentenza di assoluzione ogni qual volta il fatto sia stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità o vi sia il dubbio sull’esistenza delle stesse.
In ogni altro caso, il giudice deve pronunciare sentenza di condanna (ai sensi degli articoli 533, 535 e/o seguenti, del codice di procedura penale, a seconda degli specifici casi) quando l’imputato risulta colpevole del reato ascrittogli.
Già in altra sede ho espresso la mia personale opinione circa i termini di una corretta lettura ed intesa della norma di cui all'art. 27, secondo comma, della Costituzione e qui non ho che da reiterarla con convinzione. "L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva", stabilisce il secondo comma dell'art. 27 della Costituzione, e, da questa norma di principio, si è tratto il modo di dirne che va sotto il nome di "presunzione di innocenza"; eccedendo un pò quanto a larghezza interpretativa della specifica norma di rango costituzionale, atteso che, per esempio, si potrebbe rilevare che il non essere considerato colpevole non necessariamente deve equivalere ad essere presunto innocente, ma, magari, solo a non essere considerato colpevole, fin tanto che non accade qualcos'altro, cioè l'intervento di una decisione "finale", che potrà stabilire l'innocenza oppure la condanna defintive o, magari, solo l'impossibilità, come spesso accade, di stabilire sia l'una, che l'altra, perchè non si è raggiunta la prova sufficiente nè per condannare, nè per assolvere, e, dunque, forse si potrebbe anche intendere la norma costituzionale predetta solo od anche nel senso che il non essere considerato colpevole sino a condanna definitiva significhi che sono in corso gli accertamenti circa le eventuali responsabilità penali di chi è imputato di un fatto costituente reato.
Ma, tralasciando queste mie modeste considerazioni interpretative ed adattando il discorso a quella che è, diciamo così, l'intesa più diffusa (ed errata) di questo principio costituzionale, vi è solo da osservare che la "presunzione di non colpevolezza" non significa altro che - come la parola stessa dice - si "presume" che si sia non colpevoli, ma solo fin tanto che non succede qualcos'altro.
Questo qualcos'altro è la sentenza definitiva, cioè la sentenza che non è più soggetta ad alcuno dei mezzi di impugnazione ordinari, la quale potrà confermare la non colpevolezza, "presunta" fino alla sua pubblicazione; oppure la colpevolezza; oppure nè l'innocenza, nè la colpevolezza, perchè, ad esempio, mancano o non sono sufficienti le prove per stabilire tanto l'una quanto o l'altra.
Dunque, se ancora non si può essere reputati colpevoli fino a quando non intervenga una sentenza definitiva di condanna, ci si può considerare ed essere considerati solo imputati di un fatto costituente reato e "presunti non colpevoli" di quel fatto, ma non pure "presunti innocenti", che significa ben altro, sia per la lingua italiana, che per il diritto e, comunque, un quid che i costituenti non hanno inteso suggellare nella nostra Costituzione, poichè, se avessero voluto dire "L'imputato è considerato innocente sino alla condanna definitiva", in luogo di "L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva", niente e nessuno avrebbero potuto impedirglielo; anzi, lo avrebbero detto in base al noto principio (che è anche un'ottima regola di ermeneutica giuridica), secondo cui ubi lex voluit, dixit.
Invece, con la formula prescelta hanno voluto dire, scrivere e trasmetterci una regola costituzionale di altissimo profilo civile ed etico, in tutto e per tutto sintonica con altre norme Costituzionali, quali, ad esempio, l'art. 1, l'art. 2, l'art. 3, ecc., che, personalmente, ho sempre inteso nell'unico senso in cui penso che sia da intendere: poichè l'Italia che nascerà dalla ricostruzione in atto, sarà una Repubblica democratica fondata sul lavoro (degli onesti) ed in essa tutti i cittadini saranno uguali e di pari dignità di fronte alla legge (senza alcuna distinzione), anche quei suoi cittadini che siano accusati di aver violato la legge (penale, nel caso) hanno diritto di essere considerati uguali e di pari dignità rispetto agli altri, in virtù anche del principio di solidarietà di cui all'art. 2; per cui e sulla base di questi principi sono da considerarsi "non colpevoli", fino a che non intervenga una sentenza definitiva di condanna.
Invece, con la formula prescelta hanno voluto dire, scrivere e trasmetterci una regola costituzionale di altissimo profilo civile ed etico, in tutto e per tutto sintonica con altre norme Costituzionali, quali, ad esempio, l'art. 1, l'art. 2, l'art. 3, ecc., che, personalmente, ho sempre inteso nell'unico senso in cui penso che sia da intendere: poichè l'Italia che nascerà dalla ricostruzione in atto, sarà una Repubblica democratica fondata sul lavoro (degli onesti) ed in essa tutti i cittadini saranno uguali e di pari dignità di fronte alla legge (senza alcuna distinzione), anche quei suoi cittadini che siano accusati di aver violato la legge (penale, nel caso) hanno diritto di essere considerati uguali e di pari dignità rispetto agli altri, in virtù anche del principio di solidarietà di cui all'art. 2; per cui e sulla base di questi principi sono da considerarsi "non colpevoli", fino a che non intervenga una sentenza definitiva di condanna.
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