http://www.avvocato-penalista-cirolla.blogspot.com/google4dd38cced8fb75ed.html Avvocato penalista ...: gennaio 2016

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lunedì 18 gennaio 2016

Avvocato penalista - L'estorsione mafiosa e l'estorsione comune.

Avvocato penalista - L'estorsione mafiosa e l'estorsione comune.
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Avvocato penalista - L'estorsione mafiosa e l'estorsione comune.
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"  Il sistema delle estorsioni tra criminalità comune e mafiosa.
 
In queste prime riflessioni introduttive abbiamo accennato al fatto che l’estorsione, pur essendoci presentata dalla legislazione penale come un comune delitto che si realizza contro il patrimonio di un singolo individuo, è una delle attività più diffuse perpetrate dalla criminalità organizzata di stampo mafioso.
 
Si è aggiunto, per meglio specificare il concetto, che la mafia svolge in forma ordinaria attività estorsiva; e, da diversa angolatura, è difficile supporre che alcuni soggetti si organizzano tra loro per compiere siffatta attività criminosa su di un determinato territorio senza che essa possa essere normativamente accompagnata dalle «modalità mafiose», almeno per come la giurisprudenza interpreta la relativa circostanza aggravante.
 
Su quest’ultimo punto, comunque, si tornerà a breve.
 
Quando è così, si discorre generalmente di «sistema delle estorsioni»: il fatto che vede un’organizzazione imporre su di una enclave un vero e proprio monopolio della riscossione del pizzo, e – qualora si offra anche tale servizio – della protezione; sicché, in quell’area pagare diviene la regola, rifiutare di versare la tangente rappresenta l’eccezione.
 
A questo proposito, alcuni studiosi fanno una distinzione di massima, tra estorsione anonima (in cui le richieste estorsive sono anonime e saltuarie, e sono sostenute esclusivamente da minacce) ed estorsione-protezione (definita come un «sistema», per l’appunto, di imposizione di regolari tributi, simile a un meccanismo fiscale, che si afferma attraverso monopoli territoriali, sovrapponendosi al tessuto produttivo locale) [1].
 
La scelta dell’organizzazione di fare del racket un’attività «di sistema» risponde, invero, a inferenze razionali di facile comprensione.
 
Prendiamo un banale esempio: se in una cittadina più individui intendono organizzarsi tra loro per arricchirsi illecitamente sfruttando mezzi di violenta coercizione, è molto probabile che questi porranno in essere attività estorsiva sistematica, individuando esercenti commerciali o imprenditori e chiedendo loro, con regolarità, il pagamento di una tangente.
 
L’estorsione, come si è già avuto modo di rilevare, è un’attività che può risultare molto profittevole: non richiede l’utilizzo di mezzi fraudolenti elaborati né tantomeno di armi – salvo che l’estorsione non degeneri in episodi di violenza, in un primo momento soltanto prospettati – e ha il «vantaggio» di essere una attività delittuosa che difficilmente può essere scoperta dall’autorità giudiziaria senza la collaborazione della vittima.
 
Detto altrimenti, l’estorsione – la cui condotta si gioca per intero sul piano psicologico dell’influenza di un soggetto su di un altro soggetto – non ha nulla a che vedere con i più rischiosi delitti di furto o di rapina; delitti comunque diffusi, ma rispetto ai quali le possibilità di giungere a una sopraffazione fisica della vittima o comunque di essere scoperti sono ben maggiori.
 
Le evidenze giudiziarie e le statistiche disponibili confermano queste tesi nella misura in cui rivelano un’altissima cifra nera della condotta estorsiva.
 
E non è un caso che essa rappresenti spesso – in quanto attività, oltreché ordinaria, anche originaria – il brodo di coltura di una consorteria mafiosa.
 
Ma la relativa facilità con cui è possibile perpetrarla non deve far pensare che essa possa sempre andare a buon fine.
 
Prendiamo il caso in cui i soggetti che si propongono il compimento di attività estorsiva non posseggono né quella forza di intimidazione necessaria per chiedere il pizzo, né dispongono di strategie razionali di «conquista» di un territorio, agendo così in maniera improvvisata, senza metodo né criterio, al solo fine di ricercare un profitto immediato.
 
Ebbene, tutto ciò è vividamente percepito dall’estorto (che è soggetto a pressione, ed è dunque più sensibile a ogni sfumatura della minaccia insita nella richiesta), il quale, rendendosi conto di avere a che fare il «sistema delle estorsioni» con delinquenti di piccolo calibro che non hanno dietro alcuno, può ignorare le richieste o denunciare i fatti alle forze di polizia.
 
In questi casi, la possibilità che il fatto illecito possa emergere e determinare l’arresto e la condanna degli estorsori è altissimo: nel momento in cui il commerciante o l’imprenditore non percepisce la minaccia rivoltagli come reale e non ritiene probabile un gesto di ritorsione, non è spinto in alcun modo a dare seguito alle richieste, e anzi, è invogliato a denunciare.
 
È evidente come in questi casi non si possa parlare di «sistema»: imporre un «sistema» vuol dire capitalizzare un patrimonio d’intimidazione formatosi nel tempo; vuol dire, da diversa prospettiva, inquinare irrimediabilmente le falde dell’economia locale, generando inevitabili distorsioni nel mercato e nella concorrenza; vuol dire, insomma, veicolare i fatti da una dimensione di criminalità comune a quella della criminalità mafiosa.
 
Il racket improvvisato, saltuario, che porta sovente all’immediato arresto dei malfattori, rimane inevitabilmente incagliato sulle secche della criminalità comune.
 
Al contrario, l’attività estorsiva sistematica – che, in quanto tale, può affiorare soltanto da un humus di criminalità associativa – è riconducibile al binomio che presta il sottotitolo a questo volume: «potere e legittimazione».
 
La differenza si coglie rispetto a entrambi i termini: la legittimazione, si è detto, determina ab origine le attività di un’organizzazione criminale su di un territorio; il potere, invece, ha una intrinseca connotazione onnicomprensiva, è «più ampio della forza, contiene di più, e non è altrettanto dinamico.
 
È più complesso e possiede perfino una certa misura di pazienza» [2].
 
Risulta perciò dirimente, per una corretta collocazione del fenomeno sul piano teorico-concettuale, poter distinguere l’attività estorsiva «comune» da quella («sistematica») aggallata da un contesto caratterizzato dall’associazionismo criminale: potendo all’uopo considerare, di volta in volta, il disvalore intrinseco della condotta, il rischio che essa possa essere replicata sullo stesso soggetto o su altri, il grado di timore che si ingenera nella collettività, il peso e l’influenza che hanno le vicende estorsive sulle scelte economiche dell’imprenditoria locale e sulle dinamiche sociali, e via discorrendo.
 
Una distinzione che dunque è non soltanto possibile, ma, almeno da un punto di vista concettuale, deve essere necessariamente tenuta ferma. "
 
Fonte laleggepertutti.it, qui:
 
 
Avvocato penalista - L'estorsione mafiosa e l'estorsione comune.
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domenica 17 gennaio 2016

Avvocato penalista - La mediazione penale: gli obiettivi, i principi e i vantaggi.

Avvocato penalista - La mediazione penale: gli obiettivi, i principi e i vantaggi.
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Avvocato penalista - La mediazione penale: gli obiettivi, i principi e i vantaggi.
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" La Mediazione penale.

D. Lgs. 274/2000, Art. 29, la mediazione penale: obiettivi, vantaggi, principi.

La commissione di un reato apre un conflitto tra l’autore e la parte offesa, comporta una lacerazione dei legami sociali che spesso chiede di considerare istanze non delegabili di riparazione e di responsabilizzazione, essenziali alla tutela del patto sociale.

La peculiarità di questo processo riparativo e responsabilizzante, consiste nel contatto diretto o indiretto tra vittima e autore del reato, prendendo in considerazione gli aspetti comunicativi e relazionali tra le parti e affrontando, se del caso, le conseguenze civili del reato in termini riparativi.

Per avviare e svolgere una mediazione penale, è necessario il consenso delle parti al fine di far evolvere la loro interazione conflittuale verso un accordo soddisfacente per entrambe.

La mediazione è assistita da un soggetto terzo e neutrale, il mediatore, deputato a promuovere e agevolare l’attività di facilitazione, generalmente attenendosi a scrupolosi schemi.

Fondamento della mediazione penale.

In Italia la Mediazione Penale trae il proprio fondamento da una norma, il D. Lgs. 274/2000, Art. 29, comma 4, che stabilisce:

Il giudice, quando il reato è perseguibile a querela, promuove la conciliazione tra le parti.

In tal caso, qualora sia utile per favorire la conciliazione, il giudice può rinviare l’udienza per un periodo non superiore a due mesi e, ove occorra, può avvalersi anche dell’attività di mediazione di centri e strutture pubbliche o private presenti sul territorio.

In ogni caso, le dichiarazioni rese dalle parti nel corso dell’attività di conciliazione non possono essere in alcun modo utilizzate ai fini della deliberazione.

Obiettivi della mediazione penale.

La Mediazione penale è una modalità di gestione autonoma dei conflitti.

Obiettivi della Mediazione sono:

1- il raggiungimento di un accordo tra le parti;

2- la possibilità, per il reo, di assumersi le responsabilità;

3- l’occasione, per la vittima, di esprimere i propri sentimenti, le proprie sofferenze e le paure e di poter fruire di un’occasione di scambio e di confronto.

Affidarsi ad un programma di Mediazione penale, significa diventare artefici dell’andamento del proprio processo.

Su invito del Giudice le parti potranno avvalersi dell’opera di un Mediatore-Conciliatore professionista che le guiderà verso una soluzione condivisa della controversia.

Non sarà più una sentenza a decidere il Giudizio, ma saranno le parti, con l’ausilio del Mediatore, a raggiungere un’intesa senza subire i traumi di una decisione giudiziale.

Perché mediare?

1– per i tempi rapidissimi della procedura;

2– per la possibilità di trovare un valido accordo;

3– per evitare l’alea di una sentenza;

4– per regolamentare i rapporti futuri;

5– per i costi estremamente ridotti.

Siamo in presenza di una forma tipica di Giustizia non già retributiva, la quale, per sua natura, assume quale oggetto dell’azione giudiziaria il reato; quale finalità l’accertamento della colpevolezza e la giusta punizione del reo, con la garanzia, per quest’ultimo dell’applicazione di una pena proporzionata alla gravità del reato.

Siamo, per contro, in presenza di una forma di Giustizia riparativa, totalmente antitetica rispetto alla precedente, che sia in grado di offrire al reo la possibilità di porre riparo al danno cagionato alla vittima e favorirne la reintegrazione nella comunità attraverso un processo in cui l’obiettivo primario sarà la ricostruzione del legame sociale.

La Giustizia riparativa ha come oggetto i danni provocati alla vittima in quanto conseguenza del reato ed ha come obiettivo l’eliminazione di tali conseguenze attraverso l’attività riparatrice intrapresa dall’autore del reato; all’interno di tale modello, particolare valore assumono le parti, aggressore e vittima, mentre un ruolo centrale operativo è nettamente assunto da una figura terza ed imparziale: il Mediatore.

Principi su cui si fonda la mediazione penale.

1. Riappropriazione del processo da parte dei due attori principali, ovvero la vittima ed il reo;

2. La rivalutazione della vittima all’interno del processo: è la vittima, infatti, che decide le modalità attraverso le quali possa considerarsi adeguatamente risarcita in senso morale e materiale;

3. L’affermazione di un nuovo concetto di responsabilità da parte dell’autore del reato nei confronti della vittima che tenga conto non tanto della definizione del reato, bensì delle conseguenze;

4. L’inserimento di nuove figure professionali che possono prescindere da quelle tradizionalmente deputate all’amministrazione della Giustizia;

5. Il recupero dell’ ”amministrazione” della Giustizia da parte della comunità.

Il D. Lgs. 274/2000 ha indubbiamente introdotto una nuova concezione della Giustizia, una Giustizia non più rigidamente e rigorosamente retributiva, ma una Giustizia più snella, più vicina alle parti, al reo e, soprattutto, alla vittima; una Giustizia tesa a recepire le effettive istanze delle parti e a soddisfarle, una Giustizia, insomma, dal volto mite.

In tale congerie, come precisato dal Ministero della Giustizia nella relazione al D. Lgs. 274/2000, “La valorizzazione della conciliazione tra le parti come strumento privilegiato di risoluzione dei conflitti” costituisce l’obiettivo primario del Legislatore, laddove il suo scopo è quello di fare assumere in futuro una più ampia diffusione di un nuovo modello di giustizia penale, previa la sua auspicata positiva sperimentazione sul campo delle buone prassi.

“ Le nuove disposizioni in tema di competenza del Giudice di Pace, introdotte dal D.Lgs 274/2000, sono ispirate ad un nuovo modello di giustizia penale dal volto mite, che mira esplicitamente alla conciliazione tra le parti come strumento privilegiato di risoluzione dei conflitti.

In tale contesto normativo, il compito affidato dalla norma ai centri e strutture va individuato nell’ottica di assoluta e generale semplificazione che ispira l’intero D. Lgs. 274/2000, potendosi concludere che il ricorso alla conciliazione mira a realizzare un momento di ulteriore semplificazione, a vantaggio delle parti in contesa e dell’interesse generale”.

(Dott.ssa Giovanna De Virgiliis, Magistrato, già Funzionario del Ministero della Giustizia).
 
Anche il Consiglio d’Europa si è pronunciato affinchè la Mediazione possa divenire parte integrante dei sistemi della Giustizia, garantendo in ogni stato e grado del processo la possibilità di svolgere attività di mediazione.

In tale fattispecie:

A. Il reato è il risultato di un conflitto tra le parti;

B. La Mediazione è una modalità di gestione autonoma dei conflitti;

C. L’obiettivo della Mediazione è:

1- il raggiungimento di un accordo tra le parti;

2- la possibilità, per il reo, di assumersi le responsabilità;

3- l’occasione, per la vittima, di esprimere i propri sentimenti, le proprie sofferenze e le paure e di poter fruire di un’occasione di scambio e di confronto.

D. Il principio su cui si basa la Mediazione è la completa volontarietà delle parti;

E. Il Mediatore deve essere assolutamente neutrale alle parti ed a loro equiprossimo; il suo ruolo è quello di facilitare la comunicazione e garantire il rispetto reciproco, senza imporsi in alcuna decisione che vittima e reo assumono direttamente e congiuntamente, in piena autonomia e con l’assistenza del Mediatore. "

Fonte laleggepertutti.it, qui:

http://www.laleggepertutti.it/108661_la-mediazione-penale
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Avvocato penalista - La mediazione penale: gli obiettivi, i principi e i vantaggi.
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sabato 16 gennaio 2016

Avvocato penalista - Criminalità informatica e rischi per gli avvocati e per i loro studi legali.

Avvocato penalista - Criminalità informatica e rischi per gli avvocati e per i loro studi legali.
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Avvocato penalista - Criminalità informatica e rischi per gli avvocati e per i loro studi legali.
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" Le dimensioni non contano quando la sicurezza è in gioco.

Sono sempre più numerosi, in tutto il mondo, i casi di aziende e organizzazioni di ogni tipo e dimensione che devono fronteggiare le drastiche conseguenze di un attacco informatico.

In alcuni casi, addirittura, il danno d’immagine e la perdita di fiducia dei clienti provocati da questi eventi sono stati ulteriormente aggravati dall’amara scoperta che dietro le azioni di aggiramento delle difese di sicurezza informatica di grandi aziende si celavano dei semplici adolescenti.

Alla ricerca dell’oro on-line.

In questo scenario complesso, con difese informatiche spesso inadeguate e cyber criminali sempre più agguerriti nel cercare nuovi obiettivi, anche per gli studi legali il momento è opportuno per riflettere sulla propria sicurezza IT.

Infatti, mentre abitualmente gli hacker cercavano punti deboli che offrissero accesso a beni finanziari – appartenenti sia a società che a individui – oggi il loro scopo principale sta diventando sempre di più quello di entrare nel pieno possesso dei dati dei clienti, a partire da nome, indirizzo, data di nascita, dettagli professionali e così via: nel loro insieme, infatti, questi sono diventati un bene di grande valore nel mercato nero di Internet.

Gli studi legali di ogni dimensione, pertanto, sono particolarmente attraenti per i criminali informatici, non solo perché offrono una ricca fonte di dati su specifici individui, ma anche per la ricchezza di informazioni aziendali sensibili e riservate di cui sono al corrente, come i dati relativi a libri paga o quelli che riguardano operazioni di fusioni o acquisizioni: una volta giunte nelle mani sbagliate, queste informazioni diventano oro puro.

Nuove soluzioni per una nuova era.

Mentre molti studi legali di maggiori dimensioni sono consapevoli del rischio – e di quanto i loro dati siano appetibili per i cyber criminali – l’esperienza ci dice che quelli più piccoli potrebbero fare di più per cautelarsi dal rischio.

Prevedibilmente, molti di essi non hanno personale dedicato alla sicurezza, il che significa che la sicurezza rischia di essere “qualcosa” che “qualcuno” affronta soltanto dopo aver spuntato l’intera lista dei propri impegni, solitamente connessi ai clienti.

Questo modello – e i problemi di sicurezza che incoraggia – potrebbe essere superato adottando soluzioni di autenticazione a due fattori.

Infatti, in un’epoca in cui le password statiche si rivelano sempre più vulnerabili, è pressoché irresponsabile fare tanto affidamento su un metodo così debole per proteggere beni altamente confidenziali, soprattutto quando i clienti si aspettano che i titolari dei propri dati privati abbiano in atto misure adatte a mantenerli al sicuro.

Su queste realtà, pertanto, grava sempre di più l’onere di disporre di politiche e procedure che garantiscano che la sicurezza adottata sia all’altezza delle crescenti aspettative dei clienti.

Chiudere la porta ai criminali informatici.

Da molti anni le One Time Password (OTP), ossia password “monouso” con validità temporanea e non riutilizzabili, stanno dimostrando di essere una difesa molto robusta e resistente contro attacchi informatici nei quali il criminale adottando tecniche sempre piu’ sofisticate di attacco quali phishing, vishing e social engineering è in grado di intercettare e manipolare in vario modo i messaggi scambiati tra due parti che comunicano tra di loro senza che nessuna di queste ne sia cosciente.

Eppure, anche in questa epoca di maggiore consapevolezza in tema di sicurezza, alcune strutture più piccole appaiono riluttanti ad utilizzare questa semplice ed efficace misura come linea di difesa.

Alcuni potrebbero aver sperimentato l’autenticazione a due fattori in passato, magari abbandonandola perché non necessaria dal momento che le minacce alla sicurezza allora non erano così diffuse e sofisticate come lo sono oggi.

Potrebbero anche aver avuto l’impressione che essa aggiungesse semplicemente complessità ai processi esistenti, o che fosse difficile da implementare.

La verità è ovviamente molto diversa, dal momento che l’autenticazione a due fattori si è evoluta per sposare sia praticità che sicurezza.

Ancor più di questo, si è evoluta per assecondare i cambiamenti nel modo in cui i consulenti legali lavorano, offrendo loro una soluzione compatibile con qualsiasi dispositivo da cui operano, sia esso un dispositivo mobile, un tablet, un PC portatile o un PC desktop, ed offrendo flessibilità quando accedono in sicurezza alla rete aziendale sia dall’ufficio che da casa o da qualunque altro posto.

Non si può sfuggire al fatto che gli attacchi informatici non scompariranno.

La maggior parte degli esperti ritiene che esiste la possibilità molto reale che gli attacchi aumenteranno e che nel prossimo futuro le aziende di ogni dimensione saranno state attaccate o rischieranno di essere attaccate nella ricerca di dati personali e confidenziali da parte dei criminali.

I piccoli studi non dovrebbero aspettare che il settore legale diventi un bersaglio prima di aver salvaguardato i propri dati; un modo per battere i criminali informatici è quello di essere un passo avanti a loro, una posizione in cui è più facile essere quando l’autenticazione a due fattori fa già parte del proprio arsenale di sicurezza. "

Fonte leggioggi.it, qui:

http://www.leggioggi.it/2016/01/18/dimensioni-non-contano-quando-sicurezza-in-gioco/
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Avvocato penalista - Criminalità informatica e rischi per gli avvocati e per i loro studi legali.
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venerdì 15 gennaio 2016

Avvocato penalista - La Depenalizzazione dei reati del 2016: ecco quali sono i 41 reati che sono stati cancellati e che, dunque, non sono più reati.

Avvocato penalista - La Depenalizzazione dei reati del 2016: ecco quali sono i 41 reati che sono stati cancellati e che, dunque, non sono più reati.
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Avvocato penalista - La Depenalizzazione dei reati del 2016: ecco quali sono i 41 reati che sono stati cancellati e che, dunque, non sono più reati.
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" Depenalizzazione reati 2016: quali reati sono stati cancellati?

Dal 6 febbraio in vigore la depenalizzazione di 41 reati per alleggerire il carico dei procedimenti di tribunali e procure.

41 reati spariscono, quindi, dal codice penale per trasformarsi in illeciti civili puniti soltanto con sanzioni pecuniarie.

I 41 reati cancellati sono i seguenti:

REATI CONTRO LA FEDE PUBBLICA

Falsità in scrittura privata (Art. 485).

Falsità in foglio firmato in bianco. Atto privato (Art. 486).

Falsità su un foglio firmato in bianco diverse da quelle previste dall'articolo 486.

Uso di atto falso. Atto privato (Art. 489, co. 2).

Soppressione, distruzione e occultamento di scritture private vere (Art. 490).

REATI CONTRO LA MORALITÀ E IL BUON COSTUME

Atti osceni (Art. 527, co. 1).

Pubblicazioni e spettacoli osceni (Art. 528, co. 1 e 2).

REATI CONTRO LA PERSONA

Ingiuria (Articolo 594).

REATI CONTRO IL PATRIMONIO

Sottrazione di cose comuni (Art. 627).

Danneggiamento semplice (Art. 635, co. 1).

Appropriazione di cose smarrite, del tesoro o di cose avute per errore o caso fortuito (Art. 647).

CONTRAVVENZIONI DI POLIZIA

Rifiuto di prestare la propria opera in occasione di un tumulto (Art. 652 commi 1-2).

Abuso della credulità popolare (Art. 661).

Rappresentazioni teatrali o cinematografiche abusive (Art. 668, co. 1, 2 e 3).

Atti contrari alla pubblica decenza. Turpiloquio (Art. 726).

DEPENALIZZAZIONI DI REATI PREVISTI DA LEGGI SPECIALI
REATI IN MATERIA DI STUPEFACENTI

Mancato rispetto dell’autorizzazione alla coltivazione di stupefacenti per uso terapeutico (art. 28, co. 2 del D.p.r. 309/1990).

REATI IN MATERIA DI PREVIDENZA

Omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali (Art. 2 del D.L. 463/1983).

REATI IN MATERIA DI CIRCOLAZIONE STRADALE

Guida senza patente (Art. 116, co. 15, del D.lgs. 285/1992).

RICICLAGGIO

Omessa identificazione (Art. 55, co. 1, del D.lgs. 231/2007).

Omessa registrazione (Art. 55, co. 4, del D.lgs. 231/2007).

REATI IN MATERIA DI DIRITTO SOCIETARIO

Impedito controllo ai revisori (Art. 29 del D.lgs. 39/2010).

REATI IN MATERIA DI DIRITTO FALLIMENTARE

Omessa trasmissione dell’elenco dei protesti cambiari da parte del pubblico ufficiale (Art. 235 del R.d. 267/1942).

REATI IN MATERIA DI ASSEGNI

Emissione di assegno da parte dell’Istituto non autorizzato o con autorizzazione revocata (Art. 117 del R.d. 1736/1933).

REATI IN MATERIA DI INTERRUZIONE DELLA GRAVIDANZA

Interruzione volontaria della propria gravidanza senza l’osservanza delle modalità indicate dalla legge (Art. 19, co. 2, della legge 194/1978).

REATI IN MATERIA DI PUBBLICA SICUREZZA

Violazione delle norme per l’impianto e l’uso di apparecchi radioelettrici privati (Art. 11 del R.d. 234/1931).

REATI IN MATERIA DI DIRITTO D’AUTORE

Abusiva concessione in noleggio (Art. 171-quater del legge 633/1941).

REATI IN MATERIA DI GUERRA

Omissione di denuncia di beni (Art. 3 del decreto legislativo luogotenenziale 506/1945).

REATI IN MATERIA DI MACCHINE UTENSILI

Alterazione del contrassegno di macchine (Art. 15 della L. 1329/1965).

REATI IN MATERIA DI COMMERCIO

Installazione o esercizio di impianti.

REATI IN MATERIA DI CONTRABBANDO E VIOLAZIONI DOGANALI

Contrabbando nel movimento delle merci attraverso i confini di terra e gli spazi doganali (Art. 282 del D.p.r. 43/73).

Contrabbando nel movimento delle merci nei laghi di confine (Art. 283 del D.p.r. 43/1973).

Contrabbando nel movimento marittimo delle merci (Art. 284 del D.p.r. 43/1973).

Contrabbando nel movimento delle merci per via aerea (Art. 285 del D.p.r. 43/1973).

Contrabbando nelle zone extra-doganali (Art. 286 del D.p.r. 43/1973).

Contrabbando per indebito uso di merci importate con agevolazioni doganali (Art. 287 del D.p.r. 43/1973).

Contrabbando nei depositi doganali (Art. 288 del D.p.r. 43/1973).

Contrabbando nel cabotaggio e nella circolazione (Art. 289 del D.p.r. 43/73)

Contrabbando nell'esportazione di merci ammesse a restituzione di diritti (Art. 290 del D.p.r. 43/1973).

Contrabbando nell'importazione od esportazione temporanea (Art. 291 del D.p.r. 43/1973).

Altri casi di contrabbando (Art. 292 del D.p.r. 43/1973).

Pena per il contrabbando in caso di mancato o incompleto accertamento dell’oggetto del reato (Art. 294 del D.p.r. 43/1973).

Sanzioni

Per illeciti commessi successivamente l’entrata i vigore del Decreto sono previste sanzioni amministrative suddivise in 3 fasce:

Da 5 mila a 10 mila euro per reati puniti con multa o l’ammenda non superiore massimo a euro 5 mila.

Da 5 mila a 30 mila euro per reati puniti con multa o l’ammenda non superiore massimo a euro 20 mila.

Da 10 mila a 50 mila euro per reati puniti con multa o l’ammenda  superiore massimo a euro 20 mila. "

Fonti, tra le altre, Altalex, Leggi oggi, La legge per tutti e News pedia, qui:

http://www.altalex.com/documents/news/2016/01/28/la-nuova-depenalizzazione

http://www.leggioggi.it/2016/01/18/bozza-tabella/

http://www.laleggepertutti.it/108921_depenalizzazioni-vecchie-pene-e-nuove-sanzioni-amministrative-e-civili

http://www.newspedia.it/depenalizzazione-reati-2016-lista-e-nuove-sanzioni/
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Avvocato penalista - La Depenalizzazione dei reati del 2016: ecco quali sono i 41 reati che sono stati cancellati e che, dunque, non sono più reati.
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giovedì 14 gennaio 2016

Avvocato penalista - Legge di stabilità – Novità sul patrocinio a spese dello stato nella Legge di Stabilità.

Avvocato penalista - Legge di stabilità – Novità sul patrocinio a spese dello stato nella Legge di Stabilità.
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Avvocato penalista - Legge di stabilità – Novità sul patrocinio a spese dello stato nella Legge di Stabilità.
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L’istituto del patrocinio a spese dello Stato (artt. da 74-145 d.p.r. 30 maggio 2002, n°. 115) è centrale nell'idea del ‘giusto processo’: una novella contenuta nella ‘Legge Stabilità’ (L. 28 dicembre 2015, n°. 208, co. 783, e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n°. 302 del 30 dicembre 2015), si propone di contrastare le lentezze burocratiche della fase della liquidazione dell’onorario del difensore…

Fonte Archivio penale, qui:

http://www.archiviopenale.it/apw/wp-content/uploads/2016/02/web.2.2016.Dal_.Parlamento.Legge_.stabilit%C3%A0.Caputo.pdf
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Avvocato penalista - Legge di stabilità – Novità sul patrocinio a spese dello stato nella Legge di Stabilità.
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mercoledì 13 gennaio 2016

Avvocato penalista - Intercettazioni: le nuove regole con la riforma del processo penale.

Avvocato penalista - Intercettazioni: le nuove regole con la riforma del processo penale.
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Avvocato penalista - Intercettazioni: le nuove regole con la riforma del processo penale.
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" Semaforo verde per le nuove regole sulle intercettazioni, con il via libera della Camera (con 314 sì, 129 no e 51 astensioni) alla riforma del processo penale. In attesa che il Ddl passi al Senato, i riflettori si mantengono accesi  sul tema più caldo, quello che riguarda appunto la pubblicazione delle intercettazioni sui giornali, già rinviata a una legge delega che dovrebbe arrivare a breve. Sulla possibilità di pubblicare le intercettazioni sui giornali, infatti, in primis il Movimento 5 Stelle grida a una nuova legge-bavaglio.

«Si vota una norma liberticida, che davvero richiama i peggiori periodi della storia italiana», ha ribadito Alfonso Bonafede del M5S. Con il leghista Nicola Molteni a fargli eco: «con tutti i problemi che il Paese ha abbiamo perso quattro giorni a parlare di intercettazioni come se fosse la massima priorità», dice. Mentre l’Italia dei Valori si schiera contro «ogni eventuale tentativo di limitazione delle intercettazioni come strumento di indagine». «Nessuna delega in bianco. Nessun bavaglio all’informazione né tanto meno ostacoli alle indagini» ha risposto alle accuse il ministro della Giustizia, Andrea Orlando.

I cambiamenti introdotti dal Ddl del governo intanto sono molti: dall’estinzione del reato quando l’imputato ripara interamente in danno (valida però soltanto per i reati a querela), all’allargamento dei diritti della parte offesa a cui si attribuisce il diritto di conoscere lo stato di un procedimento trascorsi 6 mesi dalla sua denuncia. Tra le principali novità rispetto al testo originario del disegno di legge della delega, inoltre, la sostituzione dell’udienza dedicata alla selezione del «materiale intercettativo» con una più generica previsione di una scansione procedimentale «per la selezione di materiale intercettativo nel rispetto del contraddittorio delle parti, e fatte salve le esigenze di indagine».

La delega dovrà poi stabilire disposizioni atte a garantire la riservatezza delle comunicazioni e conversazioni, telefoniche e telematiche, che sono oggetto di intercettazione. Le riprese o registrazioni ottenute in maniera fraudolenta potranno essere utilizzate a patto che abbiano una certa rilevanza ai fini dell’esercizio del diritto di cronaca. E’ punita, invece, con la reclusione fino a quattro anni, «la diffusione, al solo fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui, di riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni, anche telefoniche, svolte in sua presenza ed effettuate fraudolentemente».

Nessuna punibilità anche per le registrazioni o le riprese che vengono utilizzate «nell'ambito di un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o di cronaca».

Pene maggiorate per il per furto in abitazione (da 3 a 6 anni), furto aggravato (da 2 a 6 anni) e rapina (da 4 a 10 anni). In base al nuovo testo della delega, salgono anche le pene per il voto di scambio politico-mafioso, che dagli attuali 4-10 anni slitteranno a 6-12. Tra le altre decisioni della Camera, sulle quali però solleva dubbi la magistratura, la scadenza di 3 mesi (prorogabile di ulteriori 3) per chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione a seguito della notifica di conclusa indagine da parte dei p.m. Incertezze emergono anche per l’introduzione dell’obbligo di immediata iscrizione al registro degli indagati, pena provvedimento disciplinare. "

Fonte leggioggi.it, qui:

http://www.leggioggi.it/2015/09/23/intercettazioni-nuove-regole-riforma-processo-penale/
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martedì 12 gennaio 2016

Avvocato penalista - Avvocati: come la Riforma Forense cambierà la professione, punto per punto.

Avvocato penalista - Avvocati: come la Riforma Forense cambierà la professione, punto per punto.
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Avvocato penalista - Avvocati: come la Riforma Forense cambierà la professione, punto per punto.
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" Il Ministero della Giustizia, attuando la Legge n. 247/2012 (l’ultima legge forense), è in procinto di approvate tre decreti attuativi che modificheranno significativamente il settore dell’avvocatura.

Di seguito le principali riforme della professione forense (VAI ALLO SPECIALE RIFORMA FORENSE).

ACCESSO ALLA PROFESSIONE DI AVVOCATO

Per riuscire ad anticipare l’ingresso dei giovani professionisti nel mondo del lavoro e così accedere alla professione forense, il tirocinio obbligatorio potrà iniziare 6 mesi prima della laurea, vale a dire durante gli studi universitari.

Per lo studente-praticante, è previsto dalla legge l’obbligo di frequentare i corsi in cui si richiede presenza obbligatoria, un’efficace conclusione degli studi universitari e anche una concreta frequenza dello studio professionale per almeno 12 ore alla settimana. Si aggiunge poi l'obbligo di frequenza, con profitto, per almeno 18 mesi, di corsi di formazione di indirizzo professionale tenuti da ordini e associazioni forensi, o dagli altri soggetti riconosciuti dalla legge. Al praticante verrà data anche la possibilità di svolgere un semestre di tirocinio all'estero che poi dovrà essere valutato dal Consiglio dell’Ordine per la relativa convalida.

TIROCINIO E LAVORO

Altra variazione coincide invece con la possibilità, per il praticante, di poter svolgere il tirocinio insieme ad un’altra attività di lavoro subordinato pubblico o privato. Il tirocinio dovrà essere svolto comunque con frequenza: vi è infatti un tetto minimo di 20 ore settimanali durante le quali il praticante deve presenziare in studio o, comunque, è tenuto ad operare sotto la supervisione diretta del professionista. Il praticante dovrà poi assistere ad almeno 20 udienze per semestre, oltre a collaborare effettivamente allo studio delle controversie e alla redazione degli atti.

TIROCINIO PRESSO GLI UFFICI GIUDIZIARI

Con le nuove norme, per l’ammissione al tirocinio, il praticante, oltre che possedere i requisiti di onorabilità, deve aver svolto per un periodo di almeno 6 mesi il tirocinio presso un avvocato. Si potrà in tal modo svolgere, per un periodo di 12 mesi, il tirocinio presso il magistrato affidatario, nel corso del quale il praticante dovrà, ogni 4 mesi, stendere una relazione dell’attività svolta. Ultimato il periodo, il praticante dovrà svolgere un esame finale per conseguire l’attestato di compiuto tirocinio. "

Fonte leggioggi.it, qui:

http://www.leggioggi.it/2015/12/01/avvocati-come-riforma-forense-cambiera-professione-punto-per-punto/
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lunedì 11 gennaio 2016

Avvocato penalista - Vietato gettare a terra mozziconi di sigaretta, gomme da masticare e piccoli rifiuti vari.

Avvocato penalista - Vietato gettare a terra mozziconi di sigaretta, gomme da masticare e piccoli rifiuti vari.
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Avvocato penalista - Vietato gettare a terra mozziconi di sigaretta, gomme da masticare e piccoli rifiuti vari.
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" Vietato gettare a terra mozziconi di sigaretta, gomme da masticare e piccoli rifiuti vari: sanzioni fino a 300 euro.

Vietato gettare a terra, nelle acque, nelle caditoie e negli scarichi cicche di sigaretta, gomme da masticare, scontrini, fazzoletti di carta e piccoli rifiuti vari: sono previste sanzioni fino a 300 euro.
È quanto previsto dalla legge 221 del 28 dicembre 2015 sulla cosiddetta Green Economy, in vigore dal 2 febbraio 2016.

Detta legge è intervenuta introducendo nel testo unico dell’ambiente (decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152) alcuni articoli specifici volti a fronteggiare il problema dell’inquinamento da cicche di sigarette, chewing-gum ed altri rifiuti di piccolo taglio ma fortemente inquinanti.

In verità già in passato alcuni comuni avevano tentato di arginare il problema emettendo specifiche ordinanze per punire tali comportamenti poco educati e denotati uno scarso senso civico ed ecologico.

Ora è il legislatore nazionale ad introdurre delle norme sanzionatorie ma, il problema, come facilmente intuibile sarà la vigilanza per garantire l’applicazione della norma.

Il problema inquinamento.

Per smaltire naturalmente il filtro di una sigaretta sono necessari almeno 5 anni.

Il mozzicone di sigaretta contiene sostanze tossiche come nicotina, ammoniaca e benzene che vengono sprigionate rapidamente e contribuiscono a inquinare l’aria che respiriamo e le acque dei fiumi perché spesso, le cicche di sigarette finiscono, spinte dalla pioggia nelle fognature e di qui arrivano nei nostri fiumi inquinandoli.

Non meno grave il problema delle gomme da masticare, altrettanto inquinanti oltre che dannose per il decoro delle città, specie di interesse storico.

Un recente studio dell’Ama (Azienda Municipale Ambiente S.p.a.) ha calcolato che a Roma la rimozione dei chewing-gum incollati al suolo costa circa 5,5 milioni di Euro e che in media, in ogni metro quadrato di strada, si trovano 20 gomme appiccicate all'asfalto!

Le sanzioni.

Chiunque viola il divieto di abbandono di rifiuti di piccolissime dimensioni di cui all'articolo 232-ter del d. lgs. 152/2006 appena introdotto è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro trenta a euro centocinquanta.

Se l’abbandono riguarda i rifiuti di prodotti da fumo (più banalmente le cicche di sigaretta), la sanzione amministrativa è aumentata fino al doppio ovvero fino a trecento euro. "

Fonte miolegale.it, qui:

http://www.miolegale.it/notizie/vietato-gettare-a-terra-mozziconi-di-sigaretta/
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Avvocato penalista - Vietato gettare a terra mozziconi di sigaretta, gomme da masticare e piccoli rifiuti vari.
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domenica 10 gennaio 2016

Avvocato penalista - Il dolo eventuale e la colpa cosciente: le differenze.

Avvocato penalista - Il dolo eventuale e la colpa cosciente: le differenze.
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Avvocato penalista - Il dolo eventuale e la colpa cosciente: le differenze.
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" Il dolo eventuale e la colpa cosciente costituiscono due categorie dottrinali che identificano figure, rispettivamente, vicine al concetto di dolo e a quello di colpa.

La colpa cosciente consiste nel “malgoverno di un rischio”. Il soggetto agente agisce, quindi, non adottando le dovute cautele del caso, venendo meno al dovere precauzionale che gli fa capo.

Facciamo un esempio.

Tizio decide di guidare la propria automobile percorrendo una strada ad altissima velocità (confidando nelle proprie doti di guidatore) immaginando la possibilità che, accidentalmente, qualcuno possa attraversare immprovvisamente la strada ma credendo, tuttavia, di essere in grado di “gestire il rischio”.

Egli quindi non teme che, dalla propria condotta sconsiderata, possa scaturire un evento criminoso (lesione/morte) di un soggetto che accidentalmente si accinga ad attraversare la strada.

Sfortunatamente, una vecchietta sbuca all'improvviso e Tizio, pur provando ad arrestare il veicolo, non ci riesce e la investe.

Dall'esempio riportato appare evidente come tizio “confidi un po’ troppo” nelle proprie capacità e nella propria valutazione circa la possibilità, o meno, che un fatto si realizzi come conseguenza della sua condotta e, quando agisce, è convinto che il fatto non si verificherà.

Nella colpa cosciente è quindi presente l'elemento rappresentativo del fatto (presente anche nel dolo -pure nella sua forma eventuale) mancando invece quello volitivo.

Un soggetto risponderà quindi, a titolo di colpa cosciente, quando si sia rappresentato la generica possibilità che dalla propria condotta possa scaturire il verificarsi di un evento criminoso ma, confidando nel fatto che questo non si verificherà e non volendo che si verifichi, agisca.

Quanto detto vale anche se la valutazione “a monte” sia stata effettuata con semplice leggerezza o disinteresse.

La Sentenza conclusiva del processo Thyssen (Cassazione Penale, Sezioni Unite, 18 settembre 2014) ne è un esempio.

I Giudici, infatti, hanno stabilito che nel caso in questione la condotta degli imputati non fosse ascrivibile al dolo eventuale ma, piuttosto, alla colpa cosciente.

Infatti, non essendo riusciti a provare l'intenzionalità della stessa (e quindi l'elemento “volitivo”) essa costituisce un esempio di “malgoverno di un rischio”, per tale motivo riconducibile alla colpa cosciente.

Il dolo eventuale consiste, invece, in una “organizzazione della condotta”.

Il soggetto agente da un lato si immagina il fatto di reato (elemento rappresentativo) e, dall’altro, deve volere quel fatto (elemento volitivo).

Nell’ipotesi di dolo diretto (tizio vuole uccidere caio e gli spara) tizio si immagina la morte di caio (evento naturalistico conseguente alla condotta tenuta) e vorrà tale evento (elemento volitivo).

Nell’ipotesi di dolo eventuale, invece, il soggetto “accetta il rischio” che l’ulteriore fatto, non da lui preso direttamente di mira e tuttavia di probabilissima verificazione, si verifichi come conseguenza del fatto realmente voluto.

Facciamo un esempio: tizio vuole uccidere caio e sa che costui passeggia tutti i giorni alle 3 del pomeriggio in una determinata piazza.

Decide così di piazzare una bomba proprio in quella piazza.

Tizio ha quindi intenzione di uccidere caio (dolo diretto), ma accetta altresì il rischio che dall’esplosione della bomba restino vittima dello scoppio anche persone che non aveva nessun interesse ad uccidere.

Tuttavia, al fine di poter portare a compimento la propria condotta omicidiaria, tizio è disposto ad accettare l’ulteriore evento, non direttamente preso di mira, di uccidere anche altre persone.

Questo esempio dimostra come nel dolo eventuale (a differenza di quanto detto in relazione alla colpa cosciente) vi sia non soltanto la rappresentazione di un fatto (quello voluto – la morte di tizio – e quello non necessariamente voluto, ma di cui si accetta il rischio – la morte di altre persone) ma anche la volizione dello stesso: uccidere caio e aderire all’ulteriore evento non direttamente preso di mira (uccisione di altre persone) accettando il rischio che si verifichi.

Nel caso in cui, quindi, tizio effettivamente riesca ad uccidere caio e, altresì, altre persone (a causa dello scoppio della bomba) egli risponderà di omicidio volontario ai danni di tizio, mentre risponderà, sempre di omicidio, ma a titolo di dolo eventuale ai danni degli altri soggetti, morti in conseguenza dello scoppio della bomba. "

Fonte overlex.com, qui:

http://www.overlex.com/leggiarticolo.asp?id=2885
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Avvocato penalista - Il dolo eventuale e la colpa cosciente: le differenze.
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sabato 9 gennaio 2016

Avvocato penalista - Cartella clinica: fa fede la responsabilità professionale del medico.

Avvocato penalista - Cartella clinica: fa fede la responsabilità professionale del medico.
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Avvocato penalista - Cartella clinica: fa fede la responsabilità professionale del medico.
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" Cartella clinica: fa fede la responsabilità professionale del medico.

La Suprema Corte rilancia l'importanza di quanto il medico riporta sulla cartella clinica.

Infatti sul suo contenuto si può fondare la responsabilità del sanitario che ha sbagliato l'intervento. Compete, quindi, al sanitario dimostrare il diverso significato dei contenuti del documento.

Non solo, con la recente sentenza n. 9290 dell'8 giugno 2012, la terza sezione civile della Corte di Cassazione ha stabilito, accogliendo il ricorso del paziente, che l'onere della prova contraria incombe sul camice bianco.

Gli Ermellini del Palazzaccio sono intervenuti sul caso di un paziente che era rimasto paralizzato in seguito a una medicazione, a suo avviso sbagliata, al cranio.

Nella cartella clinica era riportato l'uso di tre farmaci, uno dei quali avrebbe provocato la grave invalidità permanente.

Secondo la Cassazione, che ha ribaltato il verdetto di merito, il contenuto del documento è sufficiente a inchiodare il sanitario.

Sul punto, in sentenza, si legge che l'utilizzo contemporaneo dei tre medicamenti - dal consulente ritenuti idonei a causare l'evento lesivo - risultava dalla cartella clinica, compilata dai medici. ".Cartelle di cui il medico ha l'obbligo di controllare la completezza e l'esattezza, ai sensi dell'art. 1176, comma secondo, cod. civ."

Da ciò deriva che, "quanto attestato nella cartella clinica, deve ritenersi effettivamente accaduto, a meno che i medici non provino il diverso significato da attribuire al contemporaneo richiamo nella cartella delle tre sostanze (come usate, separatamente, in medicazioni distinte effettuate nei giorni precedenti, secondo ordinari protocolli sempre seguiti nella prassi)". "

Fonte overlex.com, qui:

http://www.overlex.com/leggiarticolo.asp?id=2792
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Avvocato penalista - Cartella clinica: fa fede la responsabilità professionale del medico.
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venerdì 8 gennaio 2016

Avvocato penalista - Le vittime di reato, da oggi, hanno più tutele e maggiori diritti.

Avvocato penalista - Le vittime di reato, da oggi, hanno più tutele e maggiori diritti.
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Avvocato penalista - Le vittime di reato, da oggi, hanno più tutele e maggiori diritti.
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" Vittima di reato? Da oggi più tutele e diritti.
 
A breve entreranno in vigore nuove regole che stabiliscono maggiori tutele e nuovi diritti per le vittime di reati, dal diritto all’interprete per chi non conosce la lingua, alla tutela delle persone più vulnerabili chiamate a testimoniare contro i propri aggressori.
 
Grazie alle nuove norme approvate dal Governo [1] le vittime di reato godranno di più diritti e tutele nel processo penale: potranno chiedere la traduzione degli atti processuali e farsi assistere da un interprete se non comprendono la lingua, dovranno essere avvisate quando il loro aggressore viene scarcerato e potranno testimoniare contro il proprio aggressore con modalità protette.
 
Le nuove regole entreranno in vigore il prossimo 20 gennaio e sono state imposte da una direttiva dell’Unione Europea che chiedeva maggiori tutele per le vittime di reato, specialmente per coloro che hanno subito reati contro la persona, come maltrattamenti, lesioni, omicidi, violenze sessuali ecc.
 
Alle vittime sarà quindi garantito nei processi penali un ruolo molto maggiore di quanto accaduto finora.
 
Ecco nel dettaglio le nuove regole:
 
Tutela dei minori.
 
Come accadeva finora solo per gli imputati, nel caso in cui non sia certa la maggiore età della persona offesa, il Giudice potrà ordinare una perizia per accertarlo e se dovesse restare un dubbio, la persona si presumerà minorenne e quindi riceverà lo stesso trattamento protettivo destinato ai minori [2].
 
Tutela per i conviventi delle vittime.
 
Nel caso in cui la vittima dovesse morire a causa di un reato, i diritti che sarebbero spettati alla vittima potranno essere esercitati non più soltanto dai parenti, ma anche dalle persone con essa stabilmente conviventi e legate da relazione affettiva [3].
 
Avviso sui propri diritti.
 
Come accade per gli imputati, sarà obbligatorio fornire alla vittima di un reato, in una lingua a lei comprensibile, tutti gli avvisi relativi ai propri diritti e ai propri obblighi nel processo [4].
 
Avviso sulla scarcerazione dell’imputato.
 
L’Autorità giudiziaria avrà l’obbligo di informare tempestivamente la vittima di un reato commesso con violenza sulla persona nel caso in cui l’aggressore sia scarcerato o sia evaso dal carcere o dagli arresti domiciliari [5].
 
Testimonianza protetta delle vittime.
 
Fino ad oggi la vittima di un reato era sempre e comunque costretta a testimoniare contro il proprio aggressore anche alla presenza di costui, ad eccezione dei minorenni, degli infermi di mente e delle vittime di reati di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, riduzione in schiavitù, stalking.
 
Con le nuove norme le stesse tutele potranno essere applicate anche alle vittime di altri reati, maggiorenni, che siano particolarmente vulnerabili perché legate affettivamente, psicologicamente o economicamente all’autore del reato (ad es. il dipendente nei confronti del datore di lavoro) [6].
 
Queste persone potranno essere sentite dalla Polizia o dal Pubblico Ministero con la partecipazione di uno psicologo [7] e potranno evitare di testimoniare nel processo in pubblico e alla presenza della persona accusata del reato, rispondendo alle domande durante le indagini [8], oppure con modalità protette [9].
 
Diritto all’interprete e alla traduzione degli atti.
 
La persona offesa che non conosca la lingua italiana può chiedere di farsi assistere gratuitamente da un interprete durante il processo e può richiedere, sempre gratuitamente, la traduzione degli atti del processo [10].
 
Il diritto alla traduzione può essere esercitato anche prima del processo, sin dal momento della presentazione della denuncia o della querela [11].
 
Le nuove norme però non precisano cosa accade nel caso in cui gli i nuovi obblighi nei confronti delle persone offese non vengano rispettati da parte delle autorità competenti.
 
Quando infatti vengono violate le norme a tutela degli imputati, gli atti illegittimi sono dichiarati nulli e ciò va a vantaggio dell’imputato, che vede allungarsi i tempi del processo.
 
Nel caso di violazione dei diritti della vittima, invece, la ripetizione degli atti nulli avrebbe spesso come conseguenza solo l’allungarsi dei tempi del giudizio, cosa che andrebbe soltanto a vantaggio dell’imputato.
 
In ogni caso, la vittima potrà comunque chiedere allo Stato il risarcimento dei danni subiti a causa della violazione dei propri diritti processuali da parte dell’Autorità Giudiziaria o delle Forze di Polizia.
 
[1] D. Lgs. n. 212 del 15 dicembre 2015.
 
[2] Art. 90, comma 2-bis, cod. proc. pen.
 
[3] Art. 90, comma 3, cod. proc. pen.
 
[4] Art. 90-bis cod. proc. pen.
 
[5] Art. 90-ter cod. proc. pen.
 
[6] Art. 90-quater cod. proc. pen.
 
[7] Artt. 190-bis, 351, 362 cod. proc. pen.
 
[8] Art. 392 comma 1-bis cod. proc. pen.
 
[9] Art. 498 comma 4-quater cod. proc. pen.
 
[10] Art. 143-bis cod. proc. pen.
 
[11] Art. 107-ter disp. att. cod. proc. pen. "
 
Fonte laleggepertutti.it, qui:
 
 
Avvocato penalista - Le vittime di reato, da oggi, hanno più tutele e maggiori diritti.
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giovedì 7 gennaio 2016

Avvocato penalista - La Falsa testimonianza, Art. 372 c. p.; che cos'è, come si concreta, come si prova e come si denuncia.

Avvocato penalista - La Falsa testimonianza, Art. 372 c. p.; che cos'è, come si concreta, come si prova e come si denuncia.
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Avvocato penalista - La Falsa testimonianza, Art. 372 c. p.; che cos'è, come si concreta, come si prova e come si denuncia.
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" Falsa testimonianza: come dimostrarla; la denuncia.
 
Testimone bugiardo durante il processo in tribunale, la responsabilità per false circostanze e colpevoli reticenze: come dimostrare la falsa testimonianza; denuncia, utilità e termini della stessa.
 
Un’odiosa abitudine dell’essere umano è quella di mentire: spesso lo facciamo anche per gioco o vanità, ma ancor di più non dire la verità ci può tornare molto comodo e utile per i nostri interessi o per quelli delle persone che ci stanno a cuore.
 
Tuttavia dobbiamo sapere che questa pratica diffusa non è sempre priva di conseguenze di natura giuridica. In particolar modo, il rischio di una responsabilità penale è ricorrente, allorquando mentiamo davanti a un Giudice.
 
Vediamo insieme, pertanto, che cos’è la falsa testimonianza, quali sono le conseguenze e come regolarci quando, invece, siamo vittima di un testimone bugiardo.
 
Che cos’è la falsa testimonianza?
 
È un reato [1].
 
La legge punisce coloro che interrogati davanti a un Giudice, mentono sulle circostanze conosciute, affermando il falso o negando la verità dei fatti. Il reato di falsa testimonianza è altresì riconoscibile allorquando fingiamo di non ricordare i fatti oggetto dell’interrogatorio.
 
In questo caso, tecnicamente, si parla di reticenza.
 
Anche la parziale omissione delle dichiarazioni dovute, comporta la responsabilità decritta.
 
Non è essenziale che la deposizione mendace sia stata o meno in grado di far sbagliare il Giudice.
 
Anche se questi ha giudicato correttamente i fatti di causa, il cosiddetto pericolo alla giustizia provocato dalla falsa testimonianza è più che sufficiente a determinare la colpevolezza.
 
Fondamentale è, altresì, la volontà della condotta: in pratica, il testimone deve aver intenzionalmente mentito o voluto nascondere determinate circostanze.
 
La pura e semplice dimenticanza, quindi, non è passibile di responsabilità.
 
L’interrogato, infatti, potrebbe non aver ricordato alcuni fatti, semplicemente perché sono trascorsi vari anni oppure poiché la tensione gli ha giocato un brutto scherzo.
 
La falsa testimonianza può essere resa sia in sede civile, sia in sede penale e, quindi, appare evidente che lo scopo della norma è di garantire il corretto funzionamento dell’attività giudiziaria, evidentemente frustrato dalla colpevole condotta del testimone bugiardo: è in realtà lo Stato ad essere vittima del reato in questione.
 
Questo da un punto di vista pratico, significa che il cittadino danneggiato dalla presunta deposizione
mendace, non potrà opporsi, ad esempio, all’eventuale richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero [2].
 
Le conseguenze del presente reato non sono irrilevanti: la legge, infatti, prevede da un minimo di due ad un massimo di sei anni di reclusione.
 
La falsa testimonianza o la reticenza è sempre punita?
 
No, la legge prevede esplicitamente una serie d’ipotesi, dove il testimone bugiardo è discolpato.
 
Ad esempio non è punibile il reticente, se la sua condotta è servita a salvare un figlio o il coniuge da un grave pregiudizio alla libertà o all’onore.
 
Stesso discorso vale per coloro che per legge non possono rendere testimonianza o fornire informazioni circa le circostanze o gli argomenti trattati nell’interrogatorio [3].
 
Come dimostro la falsa testimonianza?
 
In primo luogo sono necessarie la presenza di un procedimento civile o penale in corso e la deposizione di un soggetto quale testimone.
 
Il verbale della causa, cioè il documento all’interno del quale è trascritta la deposizione, rappresenta l’elemento da cui partire per valutare e poi dimostrare la falsa testimonianza : se c’è stato reato, il verbale ne è la rappresentazione.
 
Detto questo, occorre acquisire documenti o altro mezzi di prova che dimostrino, che quanto è stato dichiarato è frutto di una bugia.
 
Ad esempio, delle fotografie piuttosto che un documento da cui risulti che il teste al momento dei fatti si trovava altrove, sono sicuramente dei mezzi efficaci a provare il reato in discussione.
 
Anche altre testimonianze, magari maggiormente dettagliate, attendibili e verificabili, possono rappresentare un ottimo mezzo per raggiungere la verità e sconfessare il bugiardo.
 
In ogni caso è sicuramente opportuno rivolgersi ad un avvocato competente per valutare attentamente gli elementi a disposizione e i passaggi da compiere.
 
È utile dimostrare la falsa testimonianza?
 
Certamente sì.
 
Dimostrare la falsità di una deposizione testimoniale può essere fondamentale per le sorti del procedimento penale o civile che ci vede coinvolti.
 
Ad esempio, in un procedimento civile, un cosiddetto “testimone contro” rappresenta un ostacolo per il buon esito della causa che abbiamo intentato.
 
Dimostrare la falsità delle sue dichiarazioni o più semplicemente l’inattendibilità di quanto ha affermato, probabilmente potrebbe essere decisivo per vincere la causa stessa.
 
Posso fare la denuncia da solo?
 
La legge consente al cittadino di denunciare il reato di falsa testimonianza senza dover preventivamente ricorrere ad un legale.
 
La denuncia va depositata presso i carabinieri piuttosto che la polizia o la Procura della Repubblica.
 
Tuttavia, vista la delicatezza dell’argomento, e la gravità del reato che si va a denunciare è opportuno affidarsi ad un professionista, unico vero soggetto qualificato, in grado di valutare se ricorrono i presupposti per procedere.
 
Egli, altresì, sarà capace d’indirizzare il cittadino all’acquisizione di documenti o altri elementi probatori, alla presenza dei quali sarà, quindi, possibile depositare la denuncia.
 
C’è un termine da rispettare per depositare la denuncia?
 
Assolutamente no.
 
In questo caso si dice che il reato è perseguibile d’ufficio, cioè può essere denunciato in qualsiasi momento e non è neanche necessaria la stessa denuncia, se gli inquirenti sospettano la falsa testimonianza, decidendo di procedere con le indagini e con la successiva incriminazione.
 
[1] Art. 372 cod. pen.
 
[2] Cass. Civ. sent. n. 15200/2011 del 05.04.2011.
 
[3] Art. 384 cod. pen.
 
Fonte laleggepertutti.it, qui:
 
 
Avvocato penalista - La Falsa testimonianza, Art. 372 c. p.; che cos'è, come si concreta, come si prova e come si denuncia.
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mercoledì 6 gennaio 2016

Avvocato penalista - L'abuso edilizio, il reato di cui all'Art. 20 L. 28 febbraio 1985, n°. 47, come sostituito dall'Art. 44 D.P.R. 6 giugno 2001, n°. 380.

Avvocato penalista - L'abuso edilizio, il reato di cui all'Art. 20 L. 28 febbraio 1985, n°. 47, come sostituito dall'Art. 44 D.P.R. 6 giugno 2001, n°. 380.
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Avvocato penalista - L'abuso edilizio, il reato di cui all'Art. 20 L. 28 febbraio 1985, n°. 47, come sostituito dall'Art. 44 D.P.R. 6 giugno 2001, n°. 380.
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" Il reato di abuso edilizio. Disciplina del reato di abuso edilizio: elemento oggettivo, elemento soggettivo, circostanze attenuanti ed esimenti, soggetti attivi.

Il reato di costruzione edilizia senza permesso di costruire o in difformità da esso ha natura permanente e la permanenza cessa con il totale esaurimento dell’attività illecita, cioè o con la totale sospensione dei lavori, sia essa volontaria o dovuta a provvedimento autoritativo (es. sequestro) ovvero con l’ultimazione dell’opera nel suo complesso, compresi i lavori di rifinitura esterni, quali gli intonaci e gli infissi, ed interni.

Costante è la giurisprudenza della Suprema Corte in proposito:

—   «La permanenza del reato di costruzione abusiva cessa con il completamento dell’opera, comprese le rifiniture, ovvero con la totale sospensione dei lavori, sia essa volontaria o dovuta a provvedimento autoritativo (sequestro, ordinanza di sospensione dei lavori od altro), oppure, nell’ipotesi in cui i lavori siano proseguiti successivamente all’accertamento senza che sia intervenuto alcun provvedimento sospensivo, fino alla sentenza di condanna di primo grado» (Cass.: sez. III: 25 settembre 2001, n. 38136, Triassi; 4 settembre 2007, n. 33825, Caputo; 4 febbraio 2014, n. 5480, in Riv. giur. edilizia, 2014, I, 441).

—   «Il reato di costruzione edilizia senza concessione ha natura permanente e la permanenza cessa con il totale esaurimento dell’attività illecita, cioè con la totale sospensione dei lavori, sia essa volontaria (da provare rigorosamente) o dovuta a provvedimento autoritativo, ovvero con l’ultimazione dell’opera nel suo complesso, compresi i lavori di rifinitura interni ed esterni» (Cass., sez. III: 8 luglio 2005, Amadori, in Riv. giur. edilizia, 2005, I, 1758; 10 dicembre 1998, Bordonaro, in Riv. giur. edilizia, 1999, I, 1177; 21 dicembre 1998, Spagnuolo, in Riv. giur. edilizia, 2000, I, 198).

—   «La permanenza nella contravvenzione di costruzione abusiva cessa per interruzione definitiva dei lavori o per completamento dell’opera stessa in quanto l’abusività inficia la costruzione in tutte le sue parti, non solo quelle strutturali, ivi comprese le opere di completamento» (Cass., sez. III, 2 ottobre 2001, Fara, in RivistAmbiente, 2002, 205).

—   «Il reato di costruzione abusiva permane finché dura la condotta diretta al completamento dell’opera, per la realizzazione delle sue identità e idoneità funzionali, a nulla rilevando che l’art. 31, 2° comma, L. n. 47 del 1985, ai soli fini della particolare forma di sanatoria regolata dal capo IV della medesima legge (condono edilizio), prenda in considerazione il più limitato concetto di costruzione al rustico» (Cass., sez. III, 8 giugno 2010, n. 25618, in Riv. giur. edilizia, 2010, I, 1728).

—   «Il concetto di ultimazione dei lavori edilizi contenuto nell’art. 31 L. 28 febbraio 1985, n. 47 è applicabile solo in riferimento alla particolare forma di sanatoria regolata dal capo IV della medesima legge (cd. condono edilizio), onde non è utilizzabile per finalità diverse (nella specie: cessazione della permanenza)» (Cass., sez. III: 3 giugno 2003, n. 33013, Sorrentino; 21 febbraio 1990, in Riv. giur. edilizia, 1991, I, 1187).

—   «L’uso effettivo dell’immobile, accompagnato dall’attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente al fine di ritenere “ultimato” l’immobile abusivamente realizzato, coincidendo l’ultimazione con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi (fattispecie in tema di prescrizione del reato di cui all’art. 44, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380)» (Cass. sez. III: 4 novembre 2011, n. 40033; 18 ottobre 2011, n. 39733).

—   «In tema di lavori edilizi abusivi, la violazione dell’art. 17, lett. b), legge 28 gennaio 1977, n. 10, ha carattere permanente e il momento di cessazione della permanenza deve essere individuato con riferimento al momento in cui cessa l’attività illecita dell’autore e non a quello in cui si cancella lo stato oggettivamente antigiuridico della sua condotta, ciò che riguarda le conseguenze del reato sul piano amministrativo (demolizioni) o civilistico (risarcimento dei danni); la ratio della disciplina urbanistica, infatti, mira a colpire l’illecita attività costruttiva e non anche l’inerzia dell’autore dell’illecito nel ripristinare lo stato antecedente dei luoghi» (Cass., 17 maggio 1982, in Riv. pen., 1983, 608).

—   «Anche in materia edilizia, in base al principio generale per cui ciascuno deve dare dimostrazione di quanto afferma, grava sull’imputato che voglia giovarsi della causa estintiva della prescrizione, in contrasto o in aggiunta a quanto già risulta in proposito dagli atti di causa, l’onere di allegare gli elementi in suo possesso, dei quali è il solo a potere concretamente disporre, per determinare la data di inizio del decorso del termine di prescrizione ed in particolare, trattandosi di reato edilizio, la data di esecuzione dell’opera incriminata» (Cass., sez. III: 8 maggio 2012, n. 16961; 23 gennaio 2014, n. 3137).

—   «L’onere della prova circa la data di realizzazione dell’immobile abusivo spetta a chi ha commesso l’abuso e solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi, che non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni, trasferisce il suddetto onere in capo all’amministrazione» (C. Stato, sez. V, 9 novembre 2009, n. 6984).

—   «In mancanza di diversa prova, che deve essere fornita dall’imputato, la data di completamento delle opere abusive si presume coincidente con quella in cui è stata contestata la violazione» (Cass., sez. III, 3 marzo 2005, Barbetta, in Riv. giur. edilizia, 2006, I, 261).

—   «In caso di procedimento per violazione dell’art. 20 L. 28 febbraio 1985, n. 47, sempre restando a carico dell’accusa l’onere della prova della data di inizio della decorrenza del termine prescrittivo, non basta una mera e diversa affermazione da parte dell’imputato a fare ritenere che il reato sia realmente estinto per prescrizione e neppure a determinare l’incertezza sulla data di inizio della decorrenza del relativo termine con la conseguente applicazione del principio in dubio pro reo, atteso che, in base al principio generale per cui ciascuno deve dare dimostrazione di quanto afferma, grava sull’imputato che voglia giovarsi della causa estintiva, in contrasto o in aggiunta a quanto già risulta in proposito dagli atti di causa, l’onere di allegare gli elementi in suo possesso, dei quali è il solo a potere concretamente disporre, per determinare la data di inizio del decorso del termine di prescrizione, data che in tali ipotesi coincide con quella di esecuzione dell’opera incriminata» (Cass., sez. III: 13 maggio 2013, n. 20381, in Riv. giur. edilizia, 2013, I, 716; 7 maggio 2009, n. 19082).

Al fine di individuare il momento di cessazione della permanenza, inoltre, non può aversi riguardo alla data di ultimazione delle singole parti del fabbricato. Qualora, pertanto, vengono realizzate varianti abusive in alcune parti di un manufatto rientranti nella conformazione unitaria dello stesso, la prescrizione inizierà a decorrere dal momento in cui sia venuta a cessare ogni attività principale o accessoria di costruzione, e non soltanto quella inerente alle parti non consentite.

In ipotesi siffatte, invero, secondo la Cassazione:

—   «La valutazione di un’opera edilizia abusiva va effettuata con riferimento al suo complesso, non potendosi considerare separatamente i suoi singoli componenti, così che, in virtù del concetto unitario di costruzione, la stessa può dirsi completata solo ove siano stati terminati i lavori relativi a tutte le parti dell’edificio; conseguentemente la permanenza del reato di costruzione in difetto di concessione cessa con la realizzazione totale dell’opera in ogni sua parte (nella specie, la Corte ha disatteso l’eccezione di prescrizione proposta in relazione alla realizzazione di un fabbricato per il quale risultava realizzata in epoca recente la sola copertura, giudicando inammissibile la pretesa del ricorrente di ritenere oggetto di giudizio la sola attività di copertura dell’immobile)» (Cass., sez. III, 6 novembre 2002, Tucci, in Riv. pen., 2003, 735).

—   «In relazione ad una costruzione abusiva composta da più piani è inammissibile invocare una causa estintiva del reato (nella specie, prescrizione) in riferimento alle sole parti dell’edificio completate, posto che, in tema di reato di costruzione abusiva, la permanenza cessa, tra l’altro, con la realizzazione totale dell’opera in ogni sua parte» (Cass., sez. III, 24 agosto 1993, in Giust. pen., 1994, II, 386).

—   «Negli immobili esistenti ma costruiti senza concessione, fino a quando non venga sanata la illiceità, non possono essere compiuti interventi (nella specie, di completamento) edilizi (la Corte ha ritenuto al configurabilità del reato di cui all’art. 20, lett. c), L. n. 47 del 1985)» (Cass., sez. III, 18 giugno 1993, in Mass. Cass. pen., 1993, fasc. 12, 123).

—   «Deve essere riconosciuto il carattere unico della violazione qualora gli accertamenti si riferiscano ad un costruendo edificio in fasi di realizzazione diverse ed il secondo accertamento sia intervenuto prima che l’imputato fosse giudicato per la contravvenzione relativa al primo accertamento, poiché non può configurarsi alcuna cessazione della permanenza sì da dar luogo ad una nuova contestazione per diverso reato» (Cass., 2 dicembre 1987, in Riv. pen., 1988, 1203).

—   «La permanenza del reato di costruzione abusiva cessa, fra le altre ipotesi, con la realizzazione totale dell’opera; se, però, ad una costruzione abusiva ormai compiuta in ogni sua parte se ne aggiunge un’altra a distanza di tempo, non potrà ritenersi che sia stato realizzato un reato unico, e che la permanenza sia cessata solo con la realizzazione della seconda opera, ma dovrà affermarsi la sussistenza di due distinti reati» (Cass., 7 ottobre 1988, in Riv. pen., 1989, 701).

Qualora, poi, la condotta dell’agente persista durante il corso dell’azione penale, la permanenza cessa alla data della sentenza di primo grado.

Il sequestro penale interrompe la permanenza del reato (sicché la prescrizione inizierà a decorrere dalla data di imposizione del vincolo).

Ne deriva che l’eventuale violazione dei sigilli con la prosecuzione dei lavori abusivi, oltre a dare luogo al delitto di cui all’art. 349 cod. pen., integrerà un nuovo ed ulteriore reato ai sensi dell’art. 44 del T.U. n. 380/2001, connesso eventualmente, ove ne ricorrano i presupposti ex art. 81, 2° comma, cod. pen., con quello precedente.

—   «In tema di reato edilizio, la permanenza può ritenersi cessata con la sentenza di primo grado soltanto se sia accertato che l’attività edilizia sia proseguita fino al giorno della pronunzia, diversamente dovrà essere fissata al momento dell’ultima data certa (applicazione in tema di prescrizione)» (Cass., 27 giugno 1988, in Riv. pen., 1990, 289).

—   «La costruzione senza concessione e l’intervento alterativo del vincolo paesaggistico sono reati permanenti, nel senso che la loro consumazione si protrae fino al compimento dell’opera abusiva, o comunque fino al verificarsi di un evento impeditivo della prosecuzione dei lavori; evento che, con riferimento alle vicende del processo penale, si individua nella sentenza di condanna in primo grado o, ancor prima, nel sequestro dell’opera e che determina ex se la cessazione della condotta antigiuridica: l’eventuale prosecuzione di questa dà luogo ad una nuova violazione della legge penale» (Cass., sez. III, 6 maggio 1994, in Mass. Cass. pen., 1994, fasc. 9, 145).

—   «Il provvedimento di sequestro penale interrompe la permanenza del reato di costruzione abusiva perché sottrae all’imputato la disponibilità, di fatto e di diritto, dell’immobile, tanto che lo stesso imputato, qualora riprenda i lavori edili abusivi dopo il dissequestro dell’immobile, commette un ulteriore autonomo reato» (Cass., 15 marzo 1988, in Riv. pen., 1989, 34).

L’elemento soggettivo.

I reati edilizi sono reati contravvenzionali di cui si risponde quanto meno a titolo di colpa (così VANNINI, BATTAGLINI, BETTIOL R.): troppo rigorosa, invero, appare la teoria secondo la quale dette contravvenzioni sarebbero punibili anche qualora non si ravvisi dolo o colpa, essendo sufficiente la coscienza e volontà della condotta criminosa (PANNAIN).

Per la sussistenza dell’elemento soggettivo dei reati in esame, quindi, è sufficiente che il comportamento illecito sia derivato da imperizia, imprudenza o negligenza.Irrilevante, invece, è la circostanza che l’agente non si sia proposto uno scopo speculativo o quello di turbare l’assetto edilizio-urbanistico.

La rilevanza dell’errore.

Particolare importanza assume, anche in relazione ai reati edilizi, la problematica in tema di errore.

I limiti manualistici della presente trattazione non consentono un diffuso approfondimento del tema, ma i termini della questione — sia pure in maniera schematica — possono riassumersi come segue:

—  I precetti penalmente sanzionati dalle norme per l’edificabilità dei suoli risultano dall’integrazione delle disposizioni dell’art. 44 del T.U. n. 380/2001 con altri precetti legislativi o amministrativi.

—  L’errore sull’obbligo penalmente sanzionato, che si trova spesso in tali precetti di legge o in atti aventi valore normativo inferiore (es. piani regolatori, regolamenti edilizi, etc., i quali concorrono a formare la norma penale ed assumono così l’efficacia di essa), non scusa, ad eccezione dei casi di ignoranza inevitabile.

La Corte Costituzionale, infatti, con sentenza 23-3-1988, n. 364, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 del codice penale «nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile».

La pronunzia della Corte ha come presupposto l’analisi del principio di colpevolezza sancito dall’art. 27 della Costituzione (necessità del riferimento personale, per la responsabilità da illecito penale, e dell’esistenza di un riferimento soggettivo che individui almeno una condizione di colpa nell’agente) ed afferma che soltanto leggi chiare, precise e contenenti riconoscibili direttive di comportamento sono in grado di soddisfare il contenuto di questo principio costituzionale e, quindi, di garantire che il singolo si veda attribuire violazioni di precetti solo quando le conseguenze penali che si vengono a determinare siano il gruppo di comportamenti collegabili alla sua libera determinazione e non a condotte realizzate nella non-colpevole, e pertanto inevitabile, ignoranza del precetto.

L’obbligo di non ledere i precetti penali deve dipendere, dunque, «se non dalla effettiva conoscenza del contenuto dell’obbligo stesso, almeno dalla possibilità della sua conoscenza».

L’art. 2 della Costituzione impone ai cittadini precisi doveri di informazione sulle leggi, ma le leggi spesso sono disorganiche e di contenuto oscuro: da ciò la necessità di verificare la reale riconoscibilità dei contenuti delle norme, tenendo altresì conto che chi, pur avendo adempiuto con il massimo scrupolo tutti gli obblighi di conoscenza che gli competono «ciò nonostante venga a trovarsi in stato d’ignoranza della legge penale, non può essere trattato allo stesso modo di chi deliberatamente o per trascuratezza violi gli stessi doveri.

La violazione del divieto di commettere reati, avvenuta nell’ignoranza della legge penale, può, pertanto, dimostrare che l’agente non ha prestato alle leggi dello Stato tutta l’attenzione dovuta.

Ma se non v’è stata alcuna violazione di quest’ultima, se il cittadino, nei limiti possibili, si è dimostrato ligio al dovere (ex art. 54, primo comma, Cost.) e, ciò malgrado, continua ad ignorare la legge, deve concludersi che la sua ignoranza è inevitabile e, pertanto, scusabile».

Con riferimento, poi, ai criteri in base ai quali deve essere valutata la scusabilità o meno dell’errore o dell’ignoranza della legge penale, rileva testualmente la Corte:

«L’inevitabilità dell’errore sul divieto (e, conseguentemente, l’esclusione della colpevolezza) non va misurata alla stregua di criteri cd. soggettivi puri (ossia di parametri che valutino i dati influenti sulla conoscenza del precetto esclusivamente alla luce delle specifiche caratteristiche personali dell’agente), bensì secondo criteri oggettivi; ed anzitutto in base a criteri (cd. oggettivi puri) secondo i quali l’errore sul precetto è inevitabile nei casi d’impossibilità di conoscenza della legge penale da parte d’ogni consociato.

Tali casi attengono, per lo più, alla (oggettiva) mancanza di riconoscibilità della disposizione normativa (ad es. assoluta oscurità del testo legislativo) oppure ad un gravemente caotico (la misura di tale gravità va apprezzata anche in relazione ai diversi tipi di reato) atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari, etc.

La spersonalizzazione che un giudizio formulato alla stregua di criteri oggettivi puri necessariamente comporta va, tuttavia, compensata, secondo quanto innanzi avvertito, dall’esame di eventuali, particolari conoscenze ed «abilità» possedute dal singolo agente: queste ultime, consentendo all’autore del reato di cogliere i contenuti ed il significato determinativo della legge penale, escludono che l’ignoranza della legge penale vada qualificata come inevitabile.

Ed anche quando, sempre allo scopo di stabilire l’inevitabilità dell’errore sul divieto, ci si valga di «altri» criteri (cd. «misti») secondo i quali la predetta inevitabilità può essere determinata, fra l’altro, da particolari, positive, circostanze di fatto in cui s’è formata la deliberazione criminosa (es. «assicurazioni erronee» di persone istituzionalmente destinate a giudicare sui fatti da realizzare; precedenti, varie assoluzioni dell’agente per lo stesso fatto; etc.) occorre tener conto della «generalizzazione» dell’errore nel senso che qualunque consociato, in via di massima (salvo quanto aggiungiamo subito) sarebbe caduto nell’errore sul divieto ove si fosse trovato nelle stesse particolari condizioni dell’agente; ma, ancora una volta, la spersonalizzazione del giudizio va compensata dall’indagine attinente alla particolare posizione del singolo agente che, in generale, ma soprattutto quando eventualmente possegga specifiche «cognizioni» (ad es. conosca o sia in grado di conoscere l’origine lassistica o compiacente di assicurazioni di organi anche ufficiali etc.) è tenuto a «controllare» le informazioni ricevute.

Il fondamento costituzionale della «scusa» dell’inevitabile ignoranza della legge penale vale soprattutto per chi versa in condizioni soggettive d’inferiorità e non può certo esser strumentalizzata per coprire omissioni di controllo, indifferenze, etc., di soggetti dai quali, per la loro elevata condizione sociale e tecnica, sono esigibili particolari comportamenti realizzativi degli obblighi strumentali di diligenza nel conoscere le leggi penali».

Gli anzidetti principi fissati dalla Corte Costituzionale appaiono recepiti con opportuna prudenza dalla Cassazione:

—   «A seguito della sentenza 23 marzo 1988, n. 364 della Corte Costituzionale, secondo la quale l’ignoranza della legge penale, se incolpevole a cagione della sua inevitabilità, scusa l’autore dell’illecito, vanno stabiliti i limiti di tale inevitabilità.

Per il comune cittadino tale condizione è sussistente ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto «dovere di informazione», attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia. Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una «culpa levis» nello svolgimento dell’indagine giuridica.

Per l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto.

(Nella fattispecie, relativa a reati urbanistici, la Corte ha confermato l’assoluzione pronunciata dal giudice di merito per mancanza dell’elemento soggettivo del reato, motivata dalla convinzione degli imputati dell’assenza del vincolo di inedificabilità, più volte affermata in provvedimenti del giudice amministrativo, nonché in specifici atti ufficiali del Ministero dei beni culturali e ambientali e del Comune interessato)» (Cass. sez. un., 18 luglio 1994, n. 8154).

—   «Nel caso di realizzazione abusiva di un impianto di serra che, per le sue caratteristiche, necessiti di concessione edilizia, non può essere escluso il reato sotto il profilo soggettivo, per errore sulla non necessità della concessione edilizia, perché nemmeno in virtù del criterio della ignoranza inevitabile, teorizzato nella sentenza 24 marzo 1988, n. 364 della Corte Costituzionale, è lecito scusare chi eserciti una impresa agricola, ancorché piccola (cioè una attività professionale assistita anche da organizzazioni di categoria) senza informarsi delle leggi penali che disciplinano la materia» (Cass., 2 maggio 1988, in Riv. pen., 1989, 413).

—  Potrà ritenersi scusabile l’errore sul fatto costitutivo di reato (cioè su un elemento della fattispecie concreta di esso), anche qualora sia la conseguenza di un’erronea rappresentazione di una realtà normativa assunta, però, nella sua veste descrittiva.

In questi casi l’errore sulla normativa assume efficacia scusante in quanto si risolve in un errore sul fatto, pur se alla base di tale errore vi è una falsa rappresentazione della fattispecie astratta.

L’agente, in sostanza, non erra sul divieto penale, bensì sulla condotta attuata, avendo della medesima una rappresentazione diversa dalla realtà a seguito di errore su una norma extrapenale che
riguarda unicamente il fatto, formulato in termini puramente descrittivi, e non anche il precetto.

Si pensi ad esempio, all’errore sulla sussistenza del permesso di costruire a seguito di erronea comunicazione del rilascio dello stesso.

In tali casi troverà applicazione la disciplina prevista dall’art. 47, ultima parte, cod. pen.

—  Potrà ritenersi scusabile, infine, il vero e proprio errore incolpevole di fatto, allorquando l’agente.

— in perfetta buona fede ed ignorando di porre in essere una condotta oggettivamente antigiuridica ponga in essere un’attività diversa da quella autorizzata e voluta, per fattori del tutto accidentali o per la impossibilità pratica di trasporre sul terreno, con assoluta precisione, le previsioni di progetto.

In tali casi la mancanza di coscienza e volontà dell’illecito escluderà che il comportamento difforme possa qualificarsi reato.

Esimenti.

Dottrina e giurisprudenza non appaiono concordemente orientate in ordine alla possibilità di ammettere che i comportamenti illegittimi in materia urbanistica ed edilizia possano essere scriminati da particolari situazioni che ne escludano l’illiceità penale.

Quanto allo stato di necessità (art. 54 cod. pen.), la Corte di Cassazione ha affermato che gli estremi di tale esimente non sono ipotizzabili, nel reato di costruzione abusiva, allorquando manchi l’attualità di un pericolo di danno alla persona, ben potendo l’agente ottenere con altri mezzi quanto è indispensabile per evitare il danno (Cass., sez. III: 22 febbraio 2001, Bianchi; 7 ottobre 1999, Verrusio; 8 ottobre 1998, Broccio).

—   «In materia edilizia, l’operatività dello stato di necessità per il reato di costruzione abusiva non va esclusa in linea di principio, potendosi riconnettere anche a situazioni strumentali strettamente connesse alla persona, quali l’esigenza di un alloggio, ma impone il controllo rigoroso dei requisiti della scriminante, così che essa non è ipotizzabile allorché il pericolo di restare senza abitazione sia concretamente evitabile attraverso i meccanismi del mercato o dello stato sociale, dovendosi escludere la sussistenza di ogni altra, concreta, possibilità di evitare il danno grave» (Cass., sez. III, 30 novembre 2011, n. 44407; 26 gennaio 2006, Passamonti).

—   «In materia di abusi edilizi e ambientali la configurabilità della scriminante dello stato di necessità, nella specie consistente nella mancanza di una casa, appare in concreto esclusa dal fatto che il pericolo del danno grave alla persona è evitabile chiedendo, in caso di terreno edificabile, la relativa autorizzazione mentre, in caso di terreno non edificabile, il diritto del cittadino a disporre di un’abitazione non può prevalere sull’interesse della collettività alla tutela del paesaggio e dell’ambiente» (Cass., sez. III, 20 settembre 2007, Ferraioli).

—   «In tema di operatività dello stato di necessità (art. 54 cod. pen.) con riferimento al reato di costruzione abusiva — premesso che per danno grave alla persona deve intendersi ogni danno grave ai suoi diritti fondamentali, ivi compreso quello all’abitazione — va tuttavia affermato che la scriminante non opera quando il pericolo di restare senza abitazione è evitabile, e cioè quando esiste la possibilità di soddisfare la necessità attraverso i meccanismi del mercato o dello Stato sociale. (Ha inoltre precisato la Corte che comunque occorre che il fatto commesso sia proporzionale al pericolo, e che l’imputato che invoca la causa di giustificazione ha l’onere di allegare tutti gli elementi concreti che configurano la sussistenza della scriminante)» (Cass., sez. III: 21 settembre 2001, Riccobono, in Riv. pen., 2002, 793; 2 dicembre 1997, n. 11030, Guerra).

—   «In tema di operatività dello stato di necessità con riferimento al reato di costruzione abusiva, pur dovendosi ritenere corretta una interpretazione di tale scriminante che si riferisca alla esigenza di un alloggio salubre ed idoneo a garantire condizioni abitative minime essenziali, occorre potere escludere in modo assoluto la sussistenza di ogni altra concreta possibilità, priva di disvalore penale, di evitare il danno» (Cass., sez. III, 6 ottobre 2000, Martinelli).

—   «In tema di reato di costruzione edilizia la necessità di procurarsi un alloggio idoneo non può rientrare nella causa di giustificazione prevista dall’art. 54 del codice penale il cui presupposto è l’esistenza di un grave pericolo “alla persona” (nel caso di specie è stato escluso che configurasse lo stato di necessità l’esigenza di sistemare convenientemente la propria famiglia abitante in un seminterrato)» (Cass., sez. III, 17 maggio 1990, n. 7015, Sinatra).

—   «In tema di abusivismo edilizio, la necessità di ottenere un alloggio non può rientrare nella causa di giustificazione prevista dall’art. 54 cod. pen., il cui presupposto è la concreta imminenza di un grave pericolo “alla persona”, non altrimenti evitabile» (Cass., sez. VI, 25 febbraio 1989, n . 3137, Gelsi).

—   «Deve essere escluso lo stato di necessità in relazione all’ampliamento di un fabbricato, senza il rilascio della concessione edilizia, motivato dalla circostanza che più persone erano costrette a vivere in un numero insufficiente di vani con pericolo della promiscuità.

Infatti, esulano dalla fattispecie tutte le condizioni di cui all’art. 54 cod. pen., specialmente la necessità di salvare sé ed altri da un pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo non altrimenti evitabile poiché l’inidoneità dell’alloggio si risolve in uno stato di disagio sia pure grave, ma tuttavia evitabile, secondo la comune esperienza, con i mezzi ordinariamente apprestabili ed eventualmente con la ricerca, temporanea o meno, di un’altra abitazione» (Cass., sez. III, 4 dicembre 1987, n. 12253, Iudicello).

—   «L’esistenza di motivi di salute del coniuge dell’autore dell’abuso edilizio (nella specie, patologia respiratoria che non gli avrebbe consentito di vivere in un ambiente inquinato) non rappresenta un pericolo concreto ed attuale di un danno grave per l’incolumità fisica della persona, tale da dover considerare assolutamente indispensabile, e non altrimenti evitabili, le violazioni delle disposizioni di legge in materia urbanistica» (Cass., sez. III, 22 giugno 2011, n. 25010, in Urbanistica e appalti, 2012, 481).

—   «Ai fini dell’art. 54 cod. pen., non è da escludere che tra i beni attinenti la personalità di un minore, e quindi da tutelare allorché sussista una minaccia di grave danno, vi sia quello di una corretta strutturazione della personalità, in sostanza di una adeguata educazione, in modo che il processo di crescita del minore non venga ostacolato o distorto nel senso di impedirgli di divenire un adulto normalmente strutturato.
(Fattispecie in cui la Suprema Corte ha ritenuto che esattamente i giudici di merito abbiano reputato che la promiscuità in cui una bambina tredicenne era costretta a vivere, con i genitori e due fratelli in una abitazione di soli due vani, potesse costituire danno grave e causa attuale, cioè sicuramente probabile, di un deterioramento pericoloso della sua personalità. La Corte è pervenuta ad annullamento con rinvio, della sentenza di condanna del padre per costruzione abusiva, sul requisito della non evitabilità del pericolo, non sembrando potersi affermare che unica azione in grado di evitarlo fosse quella di costruire un terzo vano senza concessione edilizia, in quanto, in attesa di questa, la bambina poteva alloggiare presso altri parenti o potevano essere adottate iniziative diverse)» (Cass., sez. III, 4 dicembre 1981, n. 10772, Potenziani).

—   «Il costruttore abusivo non può invocare lo status necessitatis della sua azione per fini sociali e di mercato relativi ai dipendenti della sua azienda; invero il pericolo di grave danno per costoro è ovviabile nell’ambito delle leggi sociali ed amministrative tutelanti l’efficienza della produzione industriale e la occupazione delle maestranze» (Cass., sez. III, 30 novembre 1983, n. 10152, Tognana).

La giurisprudenza di merito ha talvolta ammesso la possibilità di configurazione dell’esimente e — di fronte a fattispecie particolari di abusivismo cd. «povero» — ha addirittura ampliato l’ambito di applicabilità dell’art. 54 cod. pen.

Significative appaiono, in proposito, alcune pronunzie:

—   «Non è punibile a causa di stato di necessità chi, versando in condizioni di estrema indigenza, abbia costruito in proprio un alloggio minimo, privo di acqua e di servizi, al fine di evitare a sé e ai figli in tenera età grave ed attuale danno alle persone, non altrimenti evitabile, dal momento che non esista la possibilità di assegnazione di un’abitazione, cui pure si abbia diritto, né di un ricovero in un istituto che presenti un minimo di dignità per la persona con possibilità di convivenza per i componenti il nucleo familiare oltre l’eventuale periodo di alcuni giorni» (P. Napoli, 15 marzo 1978, in Giust. pen., 1979, II, 575).

—   «Non è punibile, per avere agito in stato di necessità, colui che ha effettuato lavori edilizi in totale difformità dalla relativa concessione al solo fine di creare un nuovo vano in aggiunta all’unico esistente, nel quale conviveva con la moglie e sei figli» (P. Vizzini, 6 dicembre 1979, in Nuovo dir., 1980, 258).

—   «È applicabile alle contravvenzioni di cui all’art. 17, lett. b), legge 28 gennaio 1977, n. 10 la scriminante dello stato di necessità, prevista dall’art. 54 c.p., nel caso in cui l’agente sia stato costretto a costruire per realizzare una casa igienicamente abitabile per sé e per il proprio genitore (nella specie, ultranovantenne, cieco e privo di una gamba)» (P. Foligno, 12 ottobre 1984, in Riv. pen., 1985, 311).

—   «È idonea ad escludere la sussistenza di reati edilizi, facendone venire meno l’antigiuridicità, l’effettiva ricorrenza di un comprovato stato di necessità risultante dall’innegabile esistenza di un pericolo attuale di un danno grave derivante, per mancanza di “alloggio cosiddetto minimo”, ad un intero e numeroso nucleo familiare costretto a vivere in indescrivibili, incredibili e disperate condizioni di precarietà abitativa ed igienico-sanitaria» (P. Niscemi, 22 novembre 1985, in Riv. giur. edilizia, 1986, I, 1066).

Secondo BETTIOL, deve ritenersi giustificato il fatto di chi proceda ad interventi non autorizzati, allorquando una situazione di pericolo imminente risulti accertata da un provvedimento della pubblica amministrazione che ordini l’esecuzione immediata di opere non dilazionabili.

MASUCCI e ROCCO DI TORREPADULA, anzi, sostengono che l’ordinanza contingibile ed urgente del Sindaco — in particolare — contiene implicitamente l’autorizzazione a compiere i lavori in essa indicati e sostituisce, pertanto, il titolo abilitativo edilizio pure per opere che modifichino l’aspetto del centro abitato.

Di parere contrario è, invece, IANNELLI, il quale afferma la necessità del permesso di costruire anche per l’esecuzione di un’ordinanza di urgenza, ritenendo però che — a prescindere dall’esistenza di una ordinanza siffatta — il reato edilizio potrebbe pur sempre essere escluso in relazione alla esimente dello stato di necessità.

Quanto all’esimente dell’adempimento di un dovere imposto da un ordine legittimo della pubblica autorità (art. 51 cod. pen.), con riferimento ai provvedimenti del giudice, la Corte Suprema ha ritenuto (Cass., 17-1-1967, in Giust. pen, 1967, II, 804) che — nelle ipotesi in cui (in sede possessoria o di denunzia di nuova opera o di danno temuto) venga ordinata l’esecuzione o la distruzione di un manufatto, per tutelare immediatamente una situazione di possesso o per ovviare ad un pericolo incombente — tali interventi non siano soggetti a preventiva licenza (ora permesso di costruire). La liceità delle opere eseguite, comunque, in quanto cautelari e provvisorie, sarà legata alla persistenza del provvedimento che le ha ordinate e resterà fermo, pertanto, l’obbligo di chiedere rituale permesso di costruire in relazione alle statuizioni del giudicato e di ripristinare lo status quo ante non appena venisse caducato il provvedimento provvisorio.

In tutte le ipotesi, invece, in cui una sentenza passata in giudicato disponga l’esecuzione di interventi edilizi, questi potranno essere effettuati soltanto nel pieno rispetto del regime permissorio, poiché spetta sempre all’amministrazione comunale accertare se il progetto relativo all’intervento disposto dal giudice sia o meno conforme alle norme urbanistiche ed edilizie, con conseguente possibilità di rifiutare il permesso di costruire nei casi di contrasto con detta normativa.

Circostanze attenuanti.

La Suprema Corte ha costantemente affermato la inapplicabilità, ai reati edilizi, dell’attenuante dei motivi di particolare valore morale o sociale prevista dall’art. 62, n. 1, cod. pen.

—   «In tema di circostanze del reato, la necessità di sopperire a bisogni familiari, lo scopo di procurare un alloggio alla propria famiglia, l’esigenza di superare le difficoltà esistenti per ottenere una concessione edilizia, essendo caratterizzati da uno scopo egoistico e non da finalità altruistiche, non sono sufficienti a costituire la base per l’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 1, cod. pen.
Tuttavia, possono essere valorizzati per il riconoscimento delle attenuanti generiche. (Fattispecie in materia di abusi edilizi, con particolare riferimento alla costruzione di un fabbricato per uso d’abitazione alla famiglia del reo)» (Cass., sez. III, 25 settembre 1989, n. 12851, Camerlingo).

—   «Nel caso di violazione dei sigilli apposti ad una costruzione abusiva non è applicabile al relativo reato l’attenuante di aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale per essere stato esso
commesso per realizzare una costruzione diretta a sopperire a ragionevoli ed indilazionabili necessità abitative dell’imputato proprietario e custode della costruzione medesima. Infatti la comune coscienza della società non giustifica la costruzione abusiva di un edificio per dare abitazione alla propria famiglia a ragione del danno che deriva da tale illecita azione ai prevalenti interessi pubblici inerenti alla corretta attuazione degli strumenti urbanistici ed alla esatta osservanza dei vincoli imposti dalle leggi — statali e regionali — a tutela di specifici interessi (paesaggistici, archeologici ecc.)» (Cass., sez. VI, 30 gennaio 1991, n. 1063, Napolitano).

—   «Al reato di costruzione abusiva non è applicabile la circostanza attenuante dell’aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale, qualora si sia costruito per dare abitazione alla propria famiglia. Invero la comune coscienza etica non giustifica che, per tale motivo, si costruisca un edificio abusivo, con conseguente danno per i prevalenti interessi pubblici inerenti alla pianificazione urbanistica» (Cass., sez. III, 18 novembre 1983, n. 9775, Salvatore).

—   «L’attenuante prevista dall’art. 62, n. 1, c.p. è applicabile quando la moralità ed utilità sociale del motivo, oltre ad essere tali obiettivamente, implicano una componente altruistica e comunitaria, che si contrappone al soddisfacimento di un personale ed egoistico interesse; ne deriva che al reato di costruzione abusiva, posto in essere per bisogno abitativo, è inapplicabile la circostanza in oggetto costituendo l’azione espressione di una pretesa individualistica, non favorevolmente valutabile secondo la concezione e le finalità delle comunità organizzate» (Cass., 26 ottobre 1987, n. 11225, Casiraro).

—   «Per l’applicazione della circostanza attenuante del motivo di particolare valore morale o sociale, non è sufficiente che il movente dell’azione sia suscettibile d’una valutazione etica o sociale positiva, ma è necessario che l’agente abbia operato per realizzare uno scopo spiccatamente nobile e altruistico in conformità alle direttive e alle finalità della comunità organizzata e quindi ai presenti ordinamenti sociali ed al loro assetto istituzionale.
La circostanza non è dunque applicabile in caso di contravvenzione per costruzione edilizia abusiva, dovuta a gravi esigenze abitative del soggetto in relazione alla scarsità di offerte del mercato
edilizio compatibili con le sue condizioni economiche» (Cass., 7 febbraio 1984, in Giust. pen., 1984, II, 402).

Quanto all’attenuante del danno patrimoniale di particolare tenuità prevista dall’art. 62, n. 4, cod. pen.:

—   «Con la sentenza di condanna per reati urbanistici o edilizi non è concedibile la attenuante del danno di particolare tenuità, ai sensi dell’art. 62, n. 4, cod. pen., atteso che detta attenuante è applicabile solo ai delitti e non anche ai reati ambientali aventi natura contravvenzionale» (Cass., sez. III, 15 aprile 2002, n. 14290, Di Franca, in RivistAmbiente, 2002, 1361).

—   «A seguito della nuova formulazione dell’art. 62, n. 4, cod. pen., recata dall’art. 2 legge 7-2-1990, n. 19, la circostanza attenuante del danno patrimoniale di particolare tenuità può essere concessa non solo nei tradizionali reati contro il patrimonio, ma anche in quelli che «comunque offendono il patrimonio».
Pertanto, poiché i reati ambientali possono cagionare danni economicamente valutabili, salvo la prova nel caso concreto, e tali danni possono presentare una maggiore o minore gravità, appare ragionevole in sede penale che di questa circostanza si possa tener conto.
(Nella specie, relativa a rigetto di ricorso, il P.M. aveva lamentato la concessione dell’attenuante «de qua» per reati — opere edilizie in zona soggetta a vincolo paesistico senza concessione e senza nulla osta — dai quali non deriverebbero «danni economicamente valutabili»)» (Cass., sez. III, 1 agosto 1992, n. 1206).

—   «La circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità concerne soltanto i delitti: non è pertanto applicabile alle contravvenzioni edilizie» (Cass., sez. III, 26 maggio 1994, n. 6187).

In riferimento all’attenuante della riparazione del danno prevista dall’art. 62, n. 6, cod. pen.:

—   «La circostanza attenuante della riparazione del danno non è applicabile al reato edilizio quando la demolizione del manufatto abusivo sia posta in essere a seguito dell’accertamento della violazione ed a notevole distanza di tempo dalla realizzazione dell’illecito, sia perché manca il necessario requisito soggettivo della spontaneità del ravvedimento, sia perchè nel periodo di mantenimento ed utilizzazione dell’opera, e prima dell’elisione od attenuazione delle conseguenze del reato, la condotta illecita posta in essere dal reo ha realizzato appieno la propria offensività» (Cass., sez. III, 22 ottobre 2010, n. 41518).

—   «La circostanza attenuante della avvenuta riparazione del danno non è applicabile ai reati edilizi quando l’abbattimento volontario dell’opera abusiva sia avvenuto in epoca posteriore all’emanazione
dell’ordinanza sindacale che impone la demolizione delle opere, la cui inottemperanza avrebbe determinato l’acquisizione del sito al patrimonio comunale» (Cass., sez. III, 13 luglio 2011, n. 29991).

—   «La circostanza attenuante della riparazione del danno può essere ritenuta in caso di spontanea ed efficace esecuzione ad opera del reo, a lavori ultimati, di un’ulteriore attività edilizia con finalità ripristinatorie o di adeguamento del manufatto abusivo alle prescrizioni urbanistico-edilizie violate» (Cass., sez. III, 24 settembre 2009, n. 43844, Di Natale, in Riv. giur. edilizia, 2010, I, 1020).

Soggetti attivi.

Fino ad epoca recente la giurisprudenza prevalente della Corte Suprema aveva ravvisato il carattere proprio dei reati di violazione della legge edilizia (vedi Cass., sez. III: 26-8-2004, n. 35084, Barreca, 14-6-1999, n. 7626, Iacovelli; 12-3-1999, n. 201, Quaranta; 24-8-1988, n. 9053, Di Santo; 27-3-1980, n. 4216, Tibollo) ed in particolare la III sezione — con la sentenza 15-10-1988, n. 9961, Maglione aveva affermato che «sussiste una stretta correlazione tra l’obbligo di condotta imposto dall’art. 6 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 ai soggetti in esso indicati e le sanzioni di cui all’art. 20 sì da configurare il reato di costruzione senza la concessione edilizia, o in contrasto con le prescrizioni urbanistiche o edilizie, come reato proprio; invero il precetto penale è diretto non a “chiunque”, ma soltanto a coloro che, in relazione all’attività edilizia, rivestono una determinata posizione giuridica o di fatto. Tale figura di reato non esclude il concorso di soggetti diversi dai destinatari degli obblighi previsti dall’art. 6 compreso il sindaco che con la concessione illegittima abbia posto in essere la condizione operativa della violazione di quegli obblighi».

Diverso orientamento era stato espresso, invece, sempre dalla III sezione della Cassazione, con la sentenza 1 luglio 1983, n. 6181, Tornabene, ove era stato affermato che «in tema di destinatari del precetto di cui all’art. 17, lett. b), della legge 28 gennaio 1977, n. 10, sull’edificabilità dei suoli, la norma predetta incrimina “i casi di esecuzione dei lavori in totale difformità o in assenza della concessione edilizia”, senza apposita qualificazione dell’agente.

Pertanto deve essere compreso nella sfera dei destinatari qualunque operatore che comunque esplichi una condotta causalmente rilevante nella modificazione della realtà proibita dalla norma, con la consapevolezza della mancanza o della difformità del titolo legittimativo o con colpevole omissione del relativo accertamento».

La teoria che riconosceva alle contravvenzioni edilizie la natura di «reati propri» pone le previsioni sanzionatorie dell’art. 44 del T.U. n. 380/2001 (ma già degli artt.: 41 della legge n. 1150/1942, 17 della legge n. 10/1977, 20 della legge n. 47/1985) in stretta connessione con la disposizione dell’art. 29 dello stesso T.U. (già degli artt.: 31, ultimo comma, della legge n. 1150/1942 e 6 della legge n. 47/1985), che individua nel titolare del permesso di costruire, nel committente, nel costruttore e nel direttore dei lavori (con peculiari specificazioni in relazione a tale ultima figura) i soggetti responsabili della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano, al permesso di costruire ed alle modalità esecutive da esso stabilite.

Solo tali soggetti, individuati per il possesso di particolari qualità, potrebbero rispondere penalmente dell’esecuzione di un’opera non conforme alla disciplina urbanistico-edilizia, salvo l’eventuale concorso di altre persone secondo i principi che regolano la partecipazione dell’extraneus al reato proprio commesso da chi riveste la qualifica richiesta dalla norma incriminatrice.

Gli argomenti principali posti a sostegno di tale tesi:
 
—   si incentrano anzitutto sul presupposto che l’oggetto giuridico tutelato dai reati edilizi sarebbe da individuarsi nell’interesse formale della pubblica amministrazione al controllo delle attività che comportano trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio. I reati medesimi, dunque, integrerebbero fattispecie incriminatrici di comportamenti inosservanti di obblighi amministrativi e, poiché i soggetti costituiti dal legislatore «garanti» del rispetto delle modalità di esercizio dell’attività edilizia sarebbero quelli indicati nell’art. 29 del T.U. dell’edilizia, solamente questi potrebbero essere considerati soggetti attivi delle contravvenzioni previste dall’art. 44, lett. a) e b), dello stesso T.U.;
si riferiscono, inoltre, alla stessa dogmatica del reato proprio, rilevando che in esso la norma incriminatrice, attraverso il riferimento al soggetto qualificato, attribuisce rilevanza ad una situazione che mette detto soggetto nelle condizioni di aggredire il bene tutelato in modo particolarmente intenso ovvero secondo modalità che ad altri soggetti non sono accessibili. In particolare, per le contravvenzioni edilizie, si assume che «il riferimento alla particolare qualità soggettiva sembra rispondere all’esigenza di individuare un centro di imputazione di obblighi» finalizzati alla tutela dell’interesse protetto. Il legislatore sarebbe così pervenuto alla delimitazione di specifici soggetti dotati dei poteri necessari ad assicurare detta tutela effettiva.

Si afferma, altresì, che «il principio di personalità della responsabilità penale, previsto dall’art. 27 della Costituzione, verrebbe seriamente compromesso qualora tali obblighi di tutela venissero imposti a chiunque, a prescindere dalla disponibilità degli effettivi poteri di tutela».

La Cassazione penale, però, nelle decisioni più recenti — a partire dalla sentenza 28 febbraio 2007, n. 8407, Roberto ed altri — ha confutato le argomentazioni anzidette e ha affermato che:

a) I reati edilizi attualmente previsti dall’art. 44, lett. b) e c), del T.U. n. 380/2001 (il cui regime era anteriormente posto dall’art. 20 della legge n. 47/1985, dall’art. 17 della legge n. 10/1977 e dall’art. 41 della legge n. 1150/1942) sono per lo più reati comuni (sia pure con alcune eccezioni) e, in quanto tali, possono essere commessi da qualsiasi soggetto.

Significativo è, anzitutto, lo stesso testo delle norme incriminatrici, formulato impersonalmente, ma (non essendo sufficiente arrestarsi alla espressione della legge) anche un accurato esame del complessivo sistema sanzionatorio penale porta ad escludere una generalizzata configurazione quali «reati propri» delle contravvenzioni in esame.

Si pensi, ad esempio, che non può essere considerato «committente» né «costruttore» colui che esegua personalmente i lavori abusivi (realizzazione monosoggettiva dell’illecito nei casi di più modeste trasformazioni urbanistiche).

Deve rilevarsi, poi, che l’attuale formulazione dell’art. 29 del T.U. n. 380/2001 — pur individuando nel titolare del permesso di costruire, nel committente e nel costruttore i soggetti «responsabili … della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano …» e, unitamente al direttore dei lavori, alle previsioni «del permesso di costruire e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo» — limita comunque l’ambito della loro responsabilità «ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo» (il capo I del titolo IV), dove non è prevista la disciplina penale, che è collocata, invece, nel capo II.

L’oggetto della tutela penale apprestata dalle norme incriminatrici in esame, infine, non va individuato esclusivamente nell’interesse strumentale della P.A. al controllo delle attività che comportano trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, bensì e principalmente nella «salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio» medesimo, e tale bene giuridico può essere indifferentemente offeso da chiunque compia attività siffatte e non soltanto da determinati soggetti che si trovino in possesso delle particolari qualità soggettive indicate dall’art. 29 del T.U. dell’edilizia.

La Corte ha affermato, inoltre, che non può giungersi a ritenere, però, che la previsione dell’art. 29 del T.U. n. 380/2001 addirittura estenda l’ambito dei possibili responsabili dei reati edilizi, configurando, per i soggetti qualificati ivi indicati, l’obbligo di intervenire quali garanti del bene tutelato e, conseguentemente, una autonoma forma di responsabilità colposa per omesso impedimento dei comportamenti descritti nelle fattispecie incriminatrici, fino a ravvisare, per essi, un reato omissivo improprio colposo anche quando non siano consapevoli di concorrere con la propria condotta omissiva alla condotta altrui integrante gli estremi di una contravvenzione edilizia.

In giurisprudenza:

—   «Il committente di opere edilizie ha l’obbligo personale di munirsi dei necessari titoli abilitativi e delle connesse autorizzazioni, sicché l’averne affidato l’esecuzione ad un imprenditore o ad un artigiano non esclude per ciò solo la responsabilità autonoma dello stesso» (Cass. pen., sez. III, 24 marzo 2010, n. 24241, Mieli, in Riv. pen., 2010, 1268).

b) La natura di reati propri non può escludersi, invece:
 
—  per alcune delle molteplici possibili violazioni riconducibili alle previsioni della lettera a) dell’art. 44 del T.U. n. 380/2001;

—  per la contravvenzione di inottemperanza all’ordine di sospensione dei lavori, di cui alla lettera b), ultima previsione, dell’art. 44 del T.U. n. 380/2001, che può essere commessa soltanto da colui o da coloro cui il provvedimento amministrativo è rivolto (con eventuale possibilità di concorso ed applicazione dei principi di cui all’art. 117 cod. pen.);

—  per le violazioni ascrivibili al direttore dei lavori, la cui responsabilità è limitata alle sole difformità fra l’opera eseguita e le previsioni e le modalità esecutive stabilite dal permesso di costruire e per il quale la legge ritiene pienamente scriminante l’effettivo recesso tempestivo e formalmente comunicato.

In giurisprudenza:
 
—   «In tema di disciplina urbanistica ed edilizia, i reati previsti dall’art. 44 D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 devono essere qualificati come reati comuni e non come reati a soggettività ristretta, salvo che per i fatti commessi dal direttore dei lavori e per la fattispecie di inottemperanza all’ordine di sospensione dei lavori impartito dall’autorità amministrativa» (Cass., sez. III: 27 giugno 2012, n. 25361; 19 dicembre 2007, n. 47083).

—   «In tema di reati edilizi, la mera qualifica d’usufruttuario dell’immobile abusivamente realizzato è insufficiente ai fini dell’affermazione della responsabilità penale per il reato di cui all’art. 44, D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, in quanto è necessario un quid pluris che consenta l’attribuzione al medesimo della qualifica di committente ovvero di compartecipe con quest’ultimo nella commissione del reato« (Cass., pen., sez. III, 24 ottobre 2008, n. 45072, Lavanco).

—   «L’amministratore di una società di capitali ha il dovere di garantire l’integrità del patrimonio sociale e deve intervenire tutte le volte in cui tale integrità può essere compromessa.
La commissione di reati da parte di amministratori può esporre la società al rischio di azioni risarcitorie nei suoi confronti.
Sicché, l’amministratore di diritto di una società di capitali risponde di concorso nei reati edilizi commessi dall’amministratore di fatto se per dolo o per semplice negligenza (ossia il fatto di avere omesso di vigilare) non ha impedito che l’evento si verificasse» (Cass., sez. III, 26 gennaio 2009, n. 3475, Pistelli).

Nel contesto dianzi delineato va esaminata la condotta degli esecutori materiali dei lavori; quei soggetti (muratori ed operai), cioè, la cui attività si svolga alle dipendenze dell’imprenditore che abbia assunto la qualifica di costruttore.

Al riguardo va osservato che:

a) Se l’atteggiamento psichico di coloro che collaborano alla realizzazione dell’illecito, fornendo un contributo morale o materiale alla costruzione abusiva sia pure nella mera qualità di dipendenti, consiste nella volontà di commettere un abuso edilizio, stante la consapevolezza che l’attività posta in essere viene effettuata in assenza o in difformità dal prescritto titolo abilitativo, ciascuno deve rispondere, a titolo di dolo, della relativa contravvenzione, ricorrendo tutti gli estremi (oggettivi e soggettivi) del concorso di persone nel reato (quanto alla consapevolezza dell’abusività dei lavori, vedi Cass., sez. III, 14 giugno 1999, n. 7626, Iacovelli, in Riv. giur. edilizia, 2000, I, 973).
In questo caso neppure può valere ad escludere la responsabilità dei meri prestatori d’opera il fatto che essi abbiano realizzato la condotta illecita per ottemperare alle disposizioni impartite dal datore di lavoro, in quanto l’efficacia scriminante riconducibile alle previsioni dell’art. 51 cod. pen. non afferisce a rapporti, sia pure gerarchici, di natura privatistica.

b) Più delicata è la questione se l’omesso, negligente accertamento dell’esistenza del provvedimento edilizio abilitante, anche da parte degli esecutori materiali dell’opera che non rivestono la qualifica di costruttore, integri gli estremi della colpa e possa configurare un’ipotesi di concorso colposo nell’illecito urbanistico.
Al riguardo la giurisprudenza pressoché unanime considera configurabile il concorso colposo nelle contravvenzioni e — stabilendo l’art. 42, 4° comma, cod. pen. la loro punibilità indifferentemente a titolo di dolo o di colpa [si ricordi che dottrina e giurisprudenza considerano altresì ammissibile, in linea di principio, pure il concorso dell’estraneo nel reato proprio] — deve ammettersi che più persone possano partecipare alla commissione di una contravvenzione anche se la loro condotta è sorretta da atteggiamenti psichici eterogenei.

In caso di mancanza del permesso di costruire è stato ritenuto, pertanto, che anche i meri esecutori materiali possono rispondere direttamente per colpa con riferimento alla disciplina posta dall’art. 110 cod. pen. (salvi i casi di erroneo convincimento scusabile), dovendo essi sottostare all’onere di accertare l’intervenuto rilascio del provvedimento abilitante, onere che — come si è detto — non incombe soltanto sui soggetti indicati dall’art. 29 del T.U. n. 380/2001 (vedi, in tal senso, Cass., sez. III: 13 maggio 2013, n. 20383, in Riv. giur. edilizia, 2013, I, 714; 26-8-2004, n. 35084, Barreca, in Dir. pen. e proc., 2005, 581).

Non è in questione, pertanto, la individuazione della sussistenza di un obbligo giuridico di impedimento dei reati ai sensi dell’art. 40 cpv. cod. pen.

Per i lavori eseguiti in difformità dal titolo, invece, la legge ha attribuito espressamente al direttore dei lavori l’obbligo di curare la corrispondenza dell’opera al progetto, sicché la diligenza richiesta agli operai non può estendersi alla verifica dell’osservanza puntuale delle previsioni e prescrizioni assentite (fatti salvi i casi di realizzazione di piani ulteriori o parti aggiuntive rilevanti, nonché quelli di opere assolutamente non riferibili a quelle assentite).

Deve escludersi, altresì, la responsabilità degli esecutori materiali per il mancato rispetto colposo delle norme urbanistiche e di piano, laddove si consideri che da tale responsabilità è esonerato già il direttore dei lavori, che è organo tecnico ben più qualificato.

In giurisprudenza:

—   «In tema di reati edilizi, e specificamente di lavori di costruzione edilizia in assenza del relativo permesso, gli esecutori materiali dei lavori, che prestano la loro attività alle dipendenze del costruttore, possono concorrere, per colpa, nella commissione dell’illecito per il caso di mancanza del permesso di costruire, se non adempiono all’onere di accertare l’intervenuto rilascio del provvedimento abilitante, ma vanno esenti da responsabilità sia in caso di lavori eseguiti in difformità dal titolo, dal momento che la legge ha attribuito espressamente al direttore dei lavori l’obbligo di curare la corrispondenza dell’opera al progetto, sia in caso di mancato rispetto colposo delle norme urbanistiche e di piano, perché dalla responsabilità è esonerato già il direttore dei lavori, che è organo tecnico ben più qualificato» (Cass., sez. III, 28 febbraio 2007, n. 8407, Roberto ed altri).

—   «In tema di reati edilizi, è responsabile del reato di costruzione abusiva non solo l’esecutore dei lavori che collabori all’edificazione delle opere principali ma anche quello che si limiti a svolgere lavori di completamento dell’immobile (quali la pavimentazione, l’intonacatura, gli infissi), sempre che sia ravvisabile un profilo di colpa collegato alla mancata conoscenza del carattere abusivo dei lavori» (Cass. pen., sez. III, 12 novembre 2008, n. 48025, Ricardi).

La giurisprudenza ha ammesso, infine, che anche altre persone possano inserirsi con la loro condotta nella consumazione del reato di violazione della legge edilizia, ponendo in essere attività che comunque contribuiscano a dare vita al fatto di costruzione abusiva.

—   «L’indicazione dei soggetti responsabili in base all’art. 6 L. n. 47 del 1985 per le violazioni della normativa urbanistica non esclude che, oltre al direttore dei lavori ed all’appaltatore, possa essere ritenuta la responsabilità di un altro soggetto, interessatosi attivamente all’edificazione dell’immobile abusivo» (Cass., sez. III, 8 maggio 1992, in Riv. giur. edilizia, 1992, I, 1004).

—   «La vendita di un prefabbricato non è di per sé sufficiente ad integrare gli estremi della contravvenzione di cui agli artt. 31, 41 della legge urbanistica; quando però il venditore presta la propria assistenza tecnica per il montaggio del prefabbricato (personale specializzato e macchinari) egli partecipa alla realizzazione dell’opera abusiva» (Cass., 26 gennaio 1981, in Riv. pen., 1981, 580).

—   «Quando il subappaltatore non lavora in situazione di assoluta autonomia, anche il subappaltante che si ingerisca concretamente nella realizzazione delle opere edilizie, deve rispondere, quanto meno a titolo di concorso nella consumazione del reato urbanistico, incombendo anche su costui l’obbligo di controllare che i lavori siano eseguiti previo rilascio della prescritta concessione e in conformità alla stessa» (Cass., 19 febbraio 1988, in Riv. pen., 1989, 852).

—   «In materia edilizia, risponde del reato di cui all’art. 20 L. 28 febbraio 1985, n. 47, ora sostituito dall’art. 44 D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, il dirigente dell’area tecnica comunale che abbia rilasciato una concessione edilizia (ora permesso di costruire) illegittima, atteso che questi, in quanto incaricato in ragione del proprio ufficio del rilascio di quello specifico atto, è titolare in via diretta ed immediata della relativa posizione di garanzia che trova il proprio fondamento normativo nell’art. 40 c.p.» (Cass., sez. III, 25 marzo 2004, D’Ascanio). "

Fonte laleggepertutti.it, qui:

http://www.laleggepertutti.it/107695_il-reato-di-abuso-edilizio
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Avvocato penalista - L'abuso edilizio, il reato di cui all'Art. 20 L. 28 febbraio 1985, n°. 47, come sostituito dall'Art. 44 D.P.R. 6 giugno 2001, n°. 380.
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