http://www.avvocato-penalista-cirolla.blogspot.com/google4dd38cced8fb75ed.html Avvocato penalista ...: giugno 2014

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lunedì 30 giugno 2014

Avvocato penalista - L'avere agito con crudeltà verso le persone e, cioè, l'aggravante di cui all'Art. 61 n°. 4 c.p., è compatibile con il tentativo; lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza qui riportata, che ha definito un grave caso di tentato omicidio.

Avvocato penalista - L'avere agito con crudeltà verso le persone e, cioè, l'aggravante di cui all'Art. 61 n°. 4 c.p., è compatibile con il tentativo; lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza qui riportata, che ha definito un grave caso di tentato omicidio.
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Avvocato penalista - L'avere agito con crudeltà verso le persone e, cioè, l'aggravante di cui all'Art. 61 n°. 4 c.p., è compatibile con il tentativo; lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza qui riportata, che ha definito un grave caso di tentato omicidio. 
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"" Aggravante dell’aver agito con crudeltà (art. 61 n. 4 c.p.): è compatibile con il tentativo.
 
Cassazione Penale, Sez. I, 30 aprile 2014 (ud. 7 marzo 2014), n. 18136.
 
Presidente Chieffi, Relatore Boni.
 
Depositata il 30 aprile 2014 la pronuncia 18136 della prima sezione penale della Corte di Cassazione relativa alla applicabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 4 c.p. (l’avere adoperato sevizie, o l’aver agito con crudeltà verso le persone) al delitto tentato.
 
Con specifico riferimento alla natura della aggravante in questione – afferma la Corte – la giurisprudenza ha già affermato che «vanno ricomprese nel concetto di crudeltà tutte le manifestazioni che denotano, durante l’”iter” criminoso, l’ansia dell’agente di appagare la propria volontà di arrecare dolore» (Cass. Pen. Sez. I, 18-01-1996, n. 1894 in Cass. Pen., 1997, 56).
 
Quanto alla sua compatibilità con la fattispecie tentata, la forma di realizzazione della aggravante – incentrata sulla particolare intensità del dolo e sulla assenza di sentimenti di pietà verso gli altri, rese manifeste dalle modalità operative della condotta, dal comportamento spietato ed insensibile – non richiede per la sua integrazione la verificazione dell’evento e l’effettivo patimento di sofferenze percepite nella loro afflittività dal soggetto passivo (in questi termini v. Cass. Pen. Sez. I, 23-02-2006, n. 16473, rv. 234086, in Riv. Pen., 2007, 3, 322  secondo cui «sussiste l’aggravante dell’aver agito con crudeltà e sevizie nella condotta di chi infierisce lungamente e rabbiosamente sulla vittima fino a massacrarla, con una condotta che eccede i limiti della normalità causale, essendo irrilevante che la vittima abbia potuto o meno percepire l’afflittività di tutti gli atti di crudeltà» nonchè Cass. Pen. Sez. I, 10-02-1997, n. 2960 in Cass. Pen., 1998, 804 secondo cui «per la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 4 c.p., non si richiede l’attitudine della vittima del reato a percepire od avvertire l’afflittività degli atti di crudeltà, essendo la circostanza essenzialmente imperniata sulla considerazione del comportamento dell’autore dell’illecito e sulla conseguente maggiore riprovevolezza di un modus agendi connotato da particolare insensibilità, spietatezza od efferatezza».
 
Pertanto – concludono i giudici – deve ritenersi che la circostanza sia rintracciabile anche nel frammento di condotta che dà luogo al tentativo, quando questa sia tale da rivelare che l’azione era orientata finalisticamente a cagionare patimenti eccedenti il normale meccanismo causale impiegabile in quel frangente per dare la morte e che, suo tramite, con l’infierire contro la vittima, l’agente avrebbe dato soddisfazione ai propri istinti crudeli ed immorali.
 
Il fatto che l’omicidio non sia stato portato a termine con l’effettivo decesso della vittima, dunque, non è di ostacolo al riconoscimento della aggravante: il suo carattere soggettivo ne consente il riconoscimento anche in assenza di consumazione, dal momento che la preparazione e l’inizio della condotta, per le modalità prescelte e per i mezzi impiegati (l’impiego del fuoco per cagionare la morte di una persona inerme già indebolita da colpi ricevuti) si presentavano tali da arrecare sofferenze fisiche particolarmente spietate denotando nell’autore un atteggiamento di particolare malvagità e soddisfazione nell’infliggere dolore ad altri.
 
Fonte giurisprudenzapenale.com :
 
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Avvocato penalista - L'avere agito con crudeltà verso le persone e, cioè, l'aggravante di cui all'Art. 61 n°. 4 c.p., è compatibile con il tentativo; lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza qui riportata, che ha definito un grave caso di tentato omicidio. 
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domenica 29 giugno 2014

Avvocato penalista - Arresti domiciliari e carcere; è evasione preferire il carcere agli arresti domiciliari? Ecco cosa ne dice la Cassazione nella sentenza qui riportata.

Avvocato penalista - Arresti domiciliari e carcere; è evasione preferire il carcere agli arresti domiciliari? Ecco cosa ne dice la Cassazione nella sentenza qui riportata. 
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Avvocato penalista - Arresti domiciliari e carcere; è evasione preferire il carcere agli arresti domiciliari? Ecco cosa ne dice la Cassazione nella sentenza qui riportata. 
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"" Esce di casa perchè preferisce il carcere ai domiciliari. Si tratta di evasione?

Esce di casa perchè preferisce il carcere ai domiciliari. Si tratta di evasione?
Suprema Corte di Cassazione VI Sezione Penale
Sentenza 4 febbraio – 27 maggio 2014, n. 21620
Presidente Agrò – Relatore Leo

Con la sentenza che di seguito si riporta, la cassazione ha esaminato un caso molto particolare dove una donna era stata accusata del reato di evasione (e condannata con l'applicazione delle attenuanti generiche e della diminuzione di pena connessa al rito abbreviato, alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione) perchè mentre si trovava agli arresti domiciliari, era uscita di casa chiamando i carabinieri affinchè la riportassero in carcere.
 
In pratica, la donna ha atteso i carabinieri nei pressi della propria abitazione con tanto di bagagli pronti per tornare in carcere.
 
Con i motivi d'appello si era sostenuto che, nella specie, farebbe difetto un dolo punibile di evasione. L'elemento soggettivo del reato consisterebbe nella volontà di sottrarsi al controllo cautelare sulla propria libertà personale od all'esecuzione di una pena. Sarebbe dunque difforme l'atteggiamento di chi voglia addirittura provocare un più alto livello di restrizione. Sul piano obiettivo, poi, l'applicazione della pena in un caso come quello di specie realizzerebbe una violazione del principio di offensività.
 
La Corte territoriale ha ritenuto l'appello inammissibile ma la Suprema Corte di Cassazione non è stata dello stesso avviso e, infatti, ha ritenuto fondato il ricorso osservando che ha riscontrato vizi nella motivazione della decisione dei giudici territoriali oltre che ad una violazione di legge processuale penale, in particolare, dell'art. 591 lettera c) e dell'art. 581 c.p.p. osservando comunque che "l'assunto che il dolo del delitto di evasione consiste nella mera consapevolezza e volontà di violare le prescrizioni attinenti alla misura restrittiva in atto, a nulla rilevando il fine ulteriore perseguito dall'agente, attiene al merito della regiudicanda. L'assunto contrario, eventualmente infondato, non è aspecifico, né apodittico, né tantomeno inconferente"

Fonte sentenze-cassazione.com :
 
 
Per leggere il testo della sentenza, cliccare al seguente link:
 

Avvocato penalista - Arresti domiciliari e carcere; è evasione preferire il carcere agli arresti domiciliari? Ecco cosa ne dice la Cassazione nella sentenza qui riportata. 
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sabato 28 giugno 2014

Avvocato penalista - Molestia o disturbo alle persone ovvero il reato previsto e punito dall'Articolo 660 del Codice Penale; la Cassazione distingue tra il reato abituale ed il reato continuato.

Avvocato penalista - Molestia o disturbo alle persone ovvero il reato previsto e punito dall'Articolo 660 del Codice Penale; la Cassazione distingue tra il reato abituale ed il reato continuato.
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Avvocato penalista - Molestia o disturbo alle persone ovvero il reato previsto e punito dall'Articolo 660 del Codice Penale; la Cassazione distingue tra il reato abituale ed il reato continuato.
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"" Molestie, discrimine tra reato continuato e reato abituale.
 
Molestie, discrimine tra reato continuato e reato abituale
Suprema Corte di Cassazione I Sezione Penale
Sentenza 29 aprile - 5 giugno 2014, n. 23619
Presidente Cortese – Relatore Zampetti
 
Con la sentenza che di seguito si riporta, la Cassazione ha trattato alcuni interessanti aspetti relativi al reato di molestie.
 
In particolare, con riferimento al reato di cui sopra, la Corte si è preoccupata di distinguere tra reato continuato e reato abituale.
 
Gli ermellini hanno dunque affermato che "il reato di molestie non è necessariamente abituale, potendo essere realizzato anche con una sola azione, di tal che la reiterazione delle azioni di disturbo ben può configurare ipotesi di continuazione (v. Rv. 248982, 247960; ecc.).
 
Peraltro tale impostazione di carattere generale non impedisce di rilevare che, in fatto, la vicenda concreta si sia snodata con caratteristiche tali da rendere la condotta abituale ed integrante il reato solo nella globalità unitaria delle condotte".
 
"Nella fattispecie - continuano i supremi giudici - ciò si rende evidente considerando che si trattò di tre episodi racchiusi nel breve giro di due mesi. Tanto ritenuto, occorre escludere la ritenuta continuazione. Ciò comporta l'eliminazione della frazione di pena, un mese di arresto, irrogata a tale titolo; in definitiva la pena finale viene ad essere determinata in mesi tre di arresto, fermo il resto".
 
Articolo 660 Codice Penale Molestia o disturbo alle persone.
 
Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturba è punito con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda fino a euro 516 [c.p. 659].

Fonte sentenze-cassazione.com :
 
 
Per leggere il testo della sentenza, cliccare al seguente link:
 
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Avvocato penalista - Molestia o disturbo alle persone ovvero il reato previsto e punito dall'Articolo 660 del Codice Penale; la Cassazione distingue tra il reato abituale ed il reato continuato.
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venerdì 27 giugno 2014

Avvocato penalista - Gli Atti persecutori (stalking) ossia il reato previsto e punito dall'Art. 612 bis del Codice Penale; la Corte Costituzionale ne ha fissato i limiti di configurazione, di lettura e di intesa.

Avvocato penalista - Gli Atti persecutori (stalking) ossia il reato previsto e punito dall'Art. 612 bis del Codice Penale; la Corte Costituzionale ne ha fissato i limiti di configurazione, di lettura e di intesa.  
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Avvocato penalista - Gli Atti persecutori (stalking) ossia il reato previsto e punito dall'Art. 612 bis del Codice Penale; la Corte Costituzionale ne ha fissato i limiti di configurazione, di lettura e di intesa.
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"" Corte Costituzionale, sentenza 11 giugno 2014 (dep. 11 giugno 2014), n. 172

SENTENZA N. 172 ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Gaetano                      SILVESTRI                           Presidente
-           Sabino                        CASSESE                                Giudice
-           Giuseppe                     TESAURO                                    ”
-           Paolo Maria                NAPOLITANO                             ”
-           Giuseppe                    FRIGO                                           ”
-           Alessandro                 CRISCUOLO                                ”
-           Paolo                          GROSSI                                        ”
-           Giorgio                       LATTANZI                                   ”
-           Aldo                           CAROSI                                        ”
-           Marta                          CARTABIA                                  ”
-           Sergio                         MATTARELLA                            ”
-           Mario Rosario             MORELLI                                     ”
-           Giancarlo                    CORAGGIO                                 ”
-           Giuliano                      AMATO                                        ”

ha pronunciato la seguente
 
SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 612-bis del codice penale, promosso dal Tribunale ordinario di Trapani, sezione distaccata di Alcamo, nel procedimento penale a carico di M.S., con ordinanza del 24 giugno 2013, iscritta al n. 284 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2014.
 
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2014 il Giudice relatore Marta Cartabia.

Ritenuto in fatto

1.– Il Tribunale ordinario di Trapani, sezione distaccata di Alcamo, con ordinanza in data 24 giugno 2013 (r. o. n. 284 del 2013), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 612-bis del codice penale, per violazione dell’art. 25, secondo comma, della Costituzione.
 
La disposizione impugnata punisce, «salvo che il fatto costituisca più grave reato», «chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita».
 
1.1.– In particolare, il giudice rimettente ha ritenuto che l’impugnata norma incriminatrice non definisca in modo «sufficientemente determinato il minimum della condotta intrusiva temporalmente necessaria e sufficiente affinché possa dirsi integrata la persecuzione penalmente rilevante». Inoltre, neppure risulterebbe sufficientemente determinato cosa debba intendersi per perdurante e grave stato di ansia o di paura, così come in alcun modo definiti sarebbero i criteri per stabilire quando il timore debba considerarsi «fondato». Estremamente ampio ed eccessivamente elastico sarebbe poi il concetto di «abitudini di vita», di cui il legislatore non avrebbe perciò sufficientemente individuato i confini.
 
Simile indeterminatezza paleserebbe, quindi, la non manifesta infondatezza della questione in relazione all’art. 25, secondo comma, Cost.
 
1.2.– Poiché nell’imputazione le condotte contestate all’imputato si assumono integrare gli elementi della fattispecie di cui il rimettente lamenta l’indeterminatezza, la sollevata questione è stata da questi ritenuta rilevante nel giudizio a quo.
 
2.– Con atto depositato in data 4 febbraio 2014, è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.
 
In particolare, l’Avvocatura generale dello Stato ha osservato che la condotta tipica della fattispecie di cui all’art. 612-bis cod. pen. sarebbe assai più determinata di quella dei reati di minaccia (art. 612 cod. pen.) e molestia (art. 660 cod. pen.), che vantano un’ampia tradizione interpretativa e la cui conformità all’art. 25, secondo comma, Cost. non è in discussione.
 
Come in ciascun reato abituale, poi, le condotte si caratterizzerebbero per la loro reiterazione nel tempo, nel senso di dover essere almeno due, senza che risulti opportuna alcuna loro ulteriore fissazione minima nel numero o nella durata temporale, giacché la connotazione criminale delle medesime sarebbe sufficientemente individuata dalla loro idoneità complessiva a determinare l’effetto psicologico tipizzato.
 
La difesa dello Stato, inoltre, reputa prive di fondamento le censure relative all’indeterminatezza del perdurante e grave stato di ansia o di paura, trattandosi di situazioni alterate dello stato psichico tali da provocare un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psico-fisico, riscontrato da copiosa letteratura medica.
 
Quanto al «fondato» timore, la difesa dello Stato ha ritenuto che si tratti di aggettivazione volta proprio a richiedere un’oggettiva apprezzabilità dell’elemento della fattispecie.
 
L’espressione «abitudini di vita» sarebbe, infine, dettata dalla necessità di riferirsi al complesso dei comportamenti che una persona solitamente mantiene nell’ambito familiare, sociale e lavorativo, e che la vittima sarebbe costretta a mutare a seguito dell’intrusione rappresentata dall’attività persecutoria.
 
Nessun pregio avrebbero, pertanto, le censure di illegittimità costituzionale sollevate dal giudice rimettente.
 
Considerato in diritto

1.– Con ordinanza depositata in data 24 giugno 2013 (r. o. n. 284 del 2013), il Tribunale ordinario di Trapani, sezione distaccata di Alcamo, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 612-bis del codice penale, per violazione del principio di determinatezza delle fattispecie penali codificato dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione.
 
In particolare, il giudice rimettente ha lamentato il fatto che il legislatore non abbia indicato in maniera sufficientemente precisa il minimum della condotta intrusiva temporalmente necessaria e sufficiente affinché possa dirsi integrata la persecuzione penalmente rilevante.
 
Inoltre, sarebbe eccessivamente vaga la nozione di «perdurante e grave stato di ansia o di paura», con cui si definisce uno degli eventi alternativi costitutivi del reato.
 
Altrettanto indefiniti sarebbero, poi, i criteri necessari per stabilire quando il timore ingenerato nella vittima debba considerarsi «fondato» ai fini dell’integrazione della fattispecie.
 
Eccessivamente ampio ed elastico sarebbe, infine, il concetto di «abitudini di vita», la cui alterazione è richiesta per la configurazione del reato.
 
2.– In via preliminare deve rilevarsi che, successivamente al deposito dell’ordinanza di rimessione, l’impugnato art. 612-bis cod. pen. è stato modificato dall’art. 1-bis, comma 1, del decreto-legge 1° luglio 2013, n. 78 (Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 94, che ha elevato a cinque anni di reclusione il massimo della pena edittale, originariamente prevista in quattro anni. Inoltre, l’art. 1, comma 3, lettera a),  del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 ottobre 2013, n. 119, ha modificato l’aggravante di cui al secondo comma dell’art. 612-bis cod. pen., stabilendo che l’aumento di pena consegua anche nel caso in cui il fatto sia commesso attraverso strumenti informatici o telematici, e chiarendo che l’aggravante sussiste anche nel caso di persona che sia attualmente legata da relazione affettiva con la persona offesa (mentre nel testo previgente si parlava di fatto commesso da chi «è stato» legato alla vittima). L’art. 1, comma 3, lettera b), del citato d.l. n. 93 del 2013, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, dellalegge n. 119 del 2013, ha infine modificato il quarto comma dell’art. 612-bis cod. pen., che disciplina la procedibilità del reato, stabilendo che, nei casi in cui il delitto siaprocedibile a querela, la remissione di quest’ultima possa essere soltanto processuale e che la medesima sia irrevocabile quando il fatto è stato commesso attraverso la reiterazione di minacce aggravate.
 
Deve, peraltro, osservarsi che il predetto jus superveniens ha inciso su parti dell’art. 612-bis cod. pen. che riguardano il trattamento sanzionatorio, le aggravanti e la procedibilità a querela del reato, senza minimamente intaccare la descrizione della fattispecie-base oggetto di incriminazione, l’unica che il rimettente assume indeterminata, lamentando solo in relazione alla stessa la violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., rilevante nel procedimento a quo.
 
Si tratta, quindi, di modifiche che non concernono aspetti della disposizione impugnata, censurati di indeterminatezza dal giudice rimettente. Conseguentemente, deve escludersi che, nella specie, debba procedersi ad una restituzione degli atti, anche perché, come questa Corte ha già avuto modo di precisare, «un’eventuale restituzione degli atti al giudice rimettente, ove questa non sia giustificata dalla necessità che sia nuovamente valutata la perdurante rilevanza nel giudizio a quo e la non manifesta infondatezza della quaestio a suo tempo sollevata, potrebbe condurre, proprio in aperto contrasto col principio di effettività della tutela giurisdizionale che non può essere disgiunta dalla sua tempestività, ad un inutile dilatamento dei tempi dei giudizi a quibus, soggetti per due volte alla sospensione conseguente al promovimento dell’incidente di legittimità costituzionale, e ad una duplicazione dello stesso giudizio di costituzionalità, con il rischio di vulnerare il canone di ragionevole durata del processo sancito dall’art. 111 Cost.» (sentenza n. 186 del 2013).
 
3 – Nel merito, questa Corte è chiamata a giudicare se l’art. 612-bis cod. pen. – che punisce «chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita» – soddisfi il principio di determinatezza delle fattispecie penali, garantito dall’art. 25, secondo comma, Cost.
 
La questione non è fondata.

Invero, la giurisprudenza costituzionale ha già chiarito che, per verificare il rispetto del principio di determinatezza, «occorre non già valutare isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, bensì collegarlo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa s’inserisce» (da ultimo, sentenza n. 282 del 2010).
 
La valutazione, dunque, è da condurre con un metodo di interpretazione integrato e sistemico e dovrà essere volta ad accertare, da una parte, la intelligibilità del precetto in base alla sua formulazione linguistica e, dall’altra, la verificabilità del fatto, descritto dalla norma incriminatrice, nella realtà dei comportamenti sociali. Infatti, come già precisato, a partire dalla sentenza n. 96 del 1981, «nella dizione dell’art. 25 Cost., che impone espressamente al legislatore di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intelligibilità dei termini impiegati, deve logicamente ritenersi anche implicito l’onere di formulare ipotesi che esprimano fattispecie corrispondenti alla realtà».
 
4.– Ciò premesso in ordine alla portata del parametro costituzionale evocato dal rimettente e al metodo da seguire per accertarne l’osservanza, occorre notare che la fattispecie di cui all’art. 612-bis cod. pen. si configura come specificazione delle condotte di minaccia o di molestia già contemplate dal codice penale, sin dalla sua originaria formulazione, agli artt. 612 e 660. La lunga tradizione applicativa di tali fattispecie in sede giurisdizionale, da un lato agevola l’interpretazione della disposizione oggi sottoposta a giudizio e, dall’altro, offre la riprova che la descrizione legislativa corrisponde a comportamenti effettivamente riscontrabili (e riscontrati) nella realtà.
 
La condotta di minaccia, infatti, oltre ad essere elemento costitutivo di diversi reati – si pensi, ad esempio, alla violenza privata ex art. 610 cod. pen., alla rapina ex art. 628 cod. pen. o all’estorsione ex art. 629 cod. pen. – è oggetto della specifica incriminazione di cui all’art. 612 cod. pen. e, nella tradizionale e consolidata interpretazione che ne è data, in piena adesione al significato che il termine assume nel linguaggio comune, essa consiste nella prospettazione di un male futuro. Molestare significa, invece, sempre secondo il senso comune, alterare in modo fastidioso o importuno l’equilibrio psichico di una persona normale. E questo è sostanzialmente il significato evocato dall’art. 660 cod. pen., in cui viene fatto riferimento alla molestia per definire il risultato di una condotta.
 
4.1.– In anni più recenti il legislatore – con l’art. 7 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 23 aprile 2009, n. 38 – volendo colmare un vuoto di tutela verso i comportamenti persecutori, assillanti e invasivi della vita altrui, di cui sono vittime soprattutto, ma non esclusivamente, le donne, ha introdotto nel codice penale l’art. 612-bis, il quale prevede un’autonoma e più grave fattispecie di reato, in linea con quanto previsto da numerosi ordinamenti stranieri e con quanto ora è stabilito, quale obbligo convenzionale per lo Stato, da strumenti internazionali e, segnatamente, dall’art. 34 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica di Istanbul, ratificata e resa esecutiva in Italia con gli artt. 1 e 2 della legge 27 giugno 2013, n. 77 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011). Con lo speciale reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. il legislatore ha ulteriormente connotato le condotte di minaccia e molestia, richiedendo che le stesse siano realizzate in modo reiterato e idoneo a cagionare almeno uno degli eventi indicati nel testo normativo (stato di ansia o di paura, timore per l’incolumità e cambiamento delle abitudini di vita). Tale ulteriore connotazione è volta ad individuare specifici fenomeni di molestia assillante che si caratterizzano per un atteggiamento predatorio nei confronti della vittima, bene espresso dal termine inglese “stalking”, con cui viene solitamente descritto questo comportamento criminale. Le peculiarità, che contraddistinguono la minaccia e la molestia in questi casi, espongono la vittima a conseguenze nella vita emotiva (stato di ansia e di paura ovvero timore per l’incolumità) e pratica (cambiamento delle abitudini di vita), che rappresentano eventi individuati dal legislatore proprio al fine di meglio circoscrivere la nuova area di illecito, caratterizzata da un aggravato disvalore rispetto alle generiche minacce e molestie e che, pertanto, giustificano una più severa reazione penale.
 
Ancora, occorre tenere conto del fatto che si è ormai consolidato un “diritto vivente” che qualifica il delitto di cui all’art. 612-bis cod. pen. come reato abituale di evento, per la cui sussistenza occorre una condotta reiterata, idonea a causare nella vittima una delle conseguenze descritte e, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, richiede il dolo generico, il quale è integrato dalla volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime a produrre almeno uno degli eventi previsti dalla norma incriminatrice (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze n. 20993 e n. 7544 del 2012).
 
Ciò conferma quanto risulta evidente già dalla formulazione legislativa del precetto e, cioè, che il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. non attenua in alcun modo la determinatezza della incriminazione rispetto alle fattispecie di molestie o di minacce, di cui costituisce una specificazione.
 
4.2.– Il fatto che il legislatore, nel definire le condotte e gli eventi, abbia fatto ricorso a una enunciazione sintetica della norma incriminatrice – come avviene, del resto, nella gran parte dei Paesi dove è stata adottata una normativa cosiddetta “anti-stalking” – e non abbia adottato, invece, una tecnica analitica di enumerazione dei comportamenti sanzionati, non comporta, di per sé, un vizio di indeterminatezza, purché attraverso l’interpretazione integrata, sistemica e teleologica, si pervenga alla individuazione di un significato chiaro, intelligibile e preciso dell’enunciato. Del resto, anche in un ordinamento come quello tedesco, in cui si è scelto di enumerare le ipotesi di persecuzione riportabili al cosiddetto “stalking” (“Nachstellung”), l’elenco non è tassativo, ma prevede una clausola di chiusura “ad analogia esplicita”, che attrae nel perimetro della rilevanza penale, oltre alle condotte puntualmente tipizzate, anche ogni “altro comportamento assimilabile” (“eine andere vergleichbare Handlung”, ex § 238, (1) del codice penale tedesco).
 
Invero, come già affermato da questa Corte, l’esigenza costituzionale di determinatezza della fattispecie ai sensi dell’art. 25, secondo comma, Cost., non coincide necessariamente con il carattere più o meno descrittivo della stessa, ben potendo la norma incriminatrice fare uso di una tecnica esemplificativa (sentenze n. 79 del 1982, n. 120 del 1963 e n. 27 del 1961), oppure riferirsi a concetti extragiuridici diffusi (sentenze n. 42 del 1972, n. 191 del 1970), ovvero ancora a dati di esperienza comune o tecnica (sentenza n. 126 del 1971). Il principio di determinatezza non esclude, infatti, l’ammissibilità di formule elastiche, alle quali non infrequentemente il legislatore deve ricorrere stante la «impossibilità pratica di elencare analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a “giustificare” l’inosservanza del precetto e la cui valenza riceve adeguata luce dalla finalità dell’incriminazione e dal quadro normativo su cui essa si innesta» (sentenze n. 302 e n. 5 del 2004).
 
5.– In relazione ai diversi elementi che, nella loro combinazione, integrano il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen., ora sottoposto all’esame della Corte, viene anzitutto in rilievo la reiterazione di condotte minacciose o moleste, idonee alternativamente a cagionare un «perdurante e grave stato di ansia o di paura» ovvero a ingenerare un «fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva» ovvero a costringere lo stesso ad alterare le «proprie abitudini di vita».
 
Il concetto di «reiterazione», utilizzato nella norma incriminatrice, chiarisce in modo preciso che sono necessarie almeno due condotte di minacce o molestia. Ciò, tuttavia, non è sufficiente, in quanto le medesime devono anche essere idonee a cagionare uno dei tre eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice. Una tale valutazione di idoneità non può che essere condotta in concreto dal giudice esaminando il singolo caso sottoposto al suo giudizio e tenendo conto che, come ha ripetutamente sottolineato la giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze n. 46331 del 2013 e n. 6417 del 2010), non è sufficiente il semplice verificarsi di uno degli eventi previsti dalla norma penale, né basta l’astratta idoneità della condotta a cagionarlo, occorrendo invece dimostrare il nesso causale tra la condotta posta in essere dall’agente e i turbamenti derivati alla vita privata della vittima.
 
Quanto al «perdurante e grave stato di ansia e di paura» e al «fondato timore per l’incolumità», trattandosi di eventi che riguardano la sfera emotiva e psicologica, essi debbono essere accertati attraverso un’accurata osservazione di segni e indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alle condotte dell’agente, che denotino una apprezzabile destabilizzazione della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima. A questo proposito, del resto, anche la giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza n. 14391 del 2012) ha precisato che la prova dello stato di ansia e di paura può e deve essere ancorata ad elementi sintomatici che rivelino un reale turbamento psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente, nonché dalle condizioni soggettive della vittima, purché note all’agente, e come tali necessariamente rientranti nell’oggetto del dolo. Anche sotto questo profilo, dunque, è dimostrato che l’enunciato legislativo di cui all’art. 612-bis cod. pen., pur richiedendo un’attenta considerazione di dati riscontrabili sul piano dei comportamenti e dell’esperienza, consente al giudice di appurare con ragionevole certezza il verificarsi dei fenomeni in esso descritti e, pertanto, non presenta vizi di indeterminatezza, ai sensi dell’art. 25, secondo comma, Cost.
 
L’aggettivazione, inoltre, in termini di «grave e perdurante» stato di ansia o di paura e di «fondato» timore per l’incolumità, vale a circoscrivere ulteriormente l’area dell’incriminazione, in modo che siano doverosamente ritenute irrilevanti ansie di scarso momento, sia in ordine alla loro durata sia in ordine alla loro incidenza sul soggetto passivo, nonché timori immaginari o del tutto fantasiosi della vittima. A tale ultimo riguardo, deve rammentarsi come spetti al giudice ricostruire e circoscrivere l’area di tipicità della condotta penalmente rilevante sulla base dei consueti criteri ermeneutici, in particolare alla luce del principio di offensività, che per giurisprudenza costante di questa Corte costituisce canone interpretativo unanimemente accettato (ex plurimis, sentenze n. 139 del 2014 e n. 62 del 1986).
 
Infine, il riferimento del legislatore alle abitudini di vita costituisce un chiaro e verificabile rinvio al complesso dei comportamenti che una persona solitamente mantiene nell’ambito familiare, sociale e lavorativo, e che la vittima è costretta a mutare a seguito dell’intrusione rappresentata dall’attività persecutoria, mutamento di cui l’agente deve avere consapevolezza ed essersi rappresentato, trattandosi di reato per l’appunto punibile solo a titolo di dolo.
 
per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 612-bis cod. pen. sollevata, in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Trapani, sezione distaccata di Alcamo, con l’ordinanza in epigrafe indicata.
 
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 giugno 2014.

F.to:

Gaetano SILVESTRI, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 giugno 2014.
Il Direttore della Cancelleria

Fonte penale.it :

http://www.penale.it/page.asp?mode=1&IDPag=1167
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Avvocato penalista - Gli Atti persecutori (stalking) ossia il reato previsto e punito dall'Art. 612 bis del Codice Penale; la Corte Costituzionale ne ha fissato i limiti di configurazione, di lettura e di intesa. 
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giovedì 26 giugno 2014

Avvocato penalista - "No alla PEC nel processo penale"; lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella recente sentenza che qui di seguito si riporta.

Avvocato penalista - "No alla PEC nel processo penale"; lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella recente sentenza che qui di seguito si riporta.
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Avvocato penalista - "No alla PEC nel processo penale"; lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella recente sentenza che qui di seguito si riporta.
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"" No alla PEC nel processo penale

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SQUASSONI Claudia - Presidente -
Dott. GENTILE Mario - Consigliere -
Dott. ACETO Aldo - Consigliere -
Dott. GENTILI Andrea - Consigliere -
Dott. SCARCELLA Alessio - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:
V.C., n. (OMISSIS);

avverso la sentenza della Corte d'Appello di CATANIA in data 21/05/2013;
 
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
 
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Alessio Scarcella;
 
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Salzano Francesco, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso.
 
Svolgimento del processo
 
1. Con sentenza della Corte d'Appello di Catania, pronunciata in data 31/05/2013, depositata in data 28/05/2013, confermativa della sentenza del tribunale di Siracusa, sez. Dist. AUGUSTA, V. C. veniva dichiarato colpevole del reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), (per aver realizzato, in assenza di permesso di costruire, un immobile di 45 mq. circa, in area insistente a distanza inferiore a 150 mt. dalla battigia) nonchè per altre violazioni della materia edilizia, e condannato alla pena condizionalmente sospesa (subordinata alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi) di sei mesi di reclusione ed Euro 60.000,00 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali ed alla sanzione amministrativa accessoria della demolizione del manufatto abusivo entro 90 gg. dall'esecutività della sentenza, previo dissequestro e restituzione dell'immobile all'avente diritto, con rimessione in pristino stato dei luoghi a sue spese.
 
2. Con tempestivo ricorso, proposto dal difensore fiduciario, viene dedotto un unico motivo di ricorso, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p.
 
2.1. Deduce, con tale motivo, la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. e), sub specie di inosservanza delle norme stabilite a pena di nullità con riferimento all'art. 178 c.p.p., lett. c), e art. 179 c.p.p., comma 1; omessa valutazione dell'istanza di rinvio per impedimento del difensore; difetto di assistenza dell'imputato.
 
Rileva il ricorrente che, con comunicazione via mail in data 15/05/2013, ore 18,29 rivolta alla cancelleria della Corte d'Appello di Catania, il difensore aveva rivolto istanza di rinvio per legittimo impedimento a comparire all'udienza del 21/05/2013, fissata per la trattazione del processo d'appello, in quanto impegnato presso il GUP di Varese quale difensore di parte civile in processo fissato per la discussione; l'istanza venne reiterata nuovamente per e-mail al medesimo indirizzo di posta elettronica fornito dalla cancelleria della Corte d'appello che tramite deposito dell'atto eseguito presso la cancelleria in data 20/05/2013, giorno antecedente l'udienza.
 
Si duole il ricorrente per non aver la Corte territoriale valutato l'istanza di rinvio depositata al fascicolo processuale, così viziando la sentenza emessa il 21 maggio 2013 per nullità assoluta; l'istanza, deduce il ricorrente, venne partecipata sei giorni prima sia mediante mezzi tecnici nelle forme di cuiall'art. 150 c.p.p., ma anche depositata in cancelleria il giorno precedente l'udienza, con conseguente violazione del diritto all'assistenza dell'imputato che rende nulla la sentenza.

Motivi della decisione
 
3. Il ricorso è fondato nei limiti di cui si dirà oltre.
 
4. Deve, anzitutto, ritenersi priva di fondamento la censura relativa alla dedotta nullità legata alla trasmissione a mezzo comunicazione e-mail dell'istanza di rinvio, che il ricorrente documenta essere stata inviata in data 15 maggio 2013 all'indirizzo di posta elettronica della cancelleria della Corte d'appello di Catania. Sul punto, infatti, è stato più volte affermato da questa Corte - ed il Collegio non rileva alcun motivo per discostarsi dal principio, che condivide - che è inammissibile l'istanza di rinvio dell'udienza per concomitante impegno del difensore trasmessa via telefax, poichè l'art. 121 c.p.p. stabilisce l'obbligo per le parti di presentare le memorie e le richieste rivolte al giudice mediante deposito in cancelleria, mentre il ricorso al telefax è riservato ai funzionari di cancelleria ai sensi dell'art. 150 c.p.p. (v., da ultimo: Sez. 6, n. 28244 del 30/01/2013 - dep. 28/06/2013, Bagheri, Rv. 256894).
 
Tale principio, espresso a proposito dell'uso del telefax, peraltro, trova applicazione per tutte quelle "Forme particolari di notificazione disposte dal giudice", cui si riferisce l'art. 150 c.p.p., ossia "mediante l'impiego di mezzi tecnici che garantiscano la conoscenza dell'atto" e, dunque, anche in quei casi - come quello oggetto di esame da parte di questa Corte - in cui la comunicazione sia stata eseguita a mezzo posta elettronica. Del resto, si aggiunge, la comunicazione venne eseguita mediante l'indirizzo mail "privato" di posta elettronica del difensore e non a mezzo di posta elettronica certificata, modalità non riconosciuta dalla legge. Per completezza, peraltro, occorre comunque chiarire che, a differenza di quanto previsto per il processo civile, nel processo penale tale forma di trasmissione, per le parti private, non sarebbe stata comunque idonea per comunicare l'impedimento.
 
Ed invero, nel processo civile l'art. 366 c.p.c., comma 2, (cosi come previsto dalla L. 12 novembre 2011, n. 183, che ha modificato la L. n. 53 del 1994), ha introdotto espressamente la PEC quale strumento utile per le notifiche degli avvocati autorizzati. Già il D.M. n. 44 del 2011 aveva disciplinato con maggiore attenzione l'invio delle comunicazioni e delle notifiche in via telematica dagli uffici giudiziari agli avvocati e agli ausiliari del giudice nel processo civile, in attuazione della L. 6 agosto 2008, n. 133, art. 51. In tale contesto assume rilevanza la disposizione di cui all'art. 4 che prevede l'adozione di un servizio di posta elettronica certificata da parte del Ministero della Giustizia in quanto ai sensi di quanto disposto dalla L. n. 24 del 2010 nel processo civile e nel processo penale, tutte le comunicazioni e notificazioni per via telematica devono effettuarsi, mediante posta elettronica certificata.
 
Quest'ultima disposizione è stata rinnovata anche dal d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 ("Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese", in GU n.245 del 19-10-2012 - Suppl. Ordinario n. 194), entrato in vigore il 20/10/2012 e convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221 (c.d. Decreto crescitalia 2.0) dove all'art. 16 viene sancito, al comma 4, che "Nei procedimenti civili le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria sono effettuate esclusivamente per via telematica all'indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni, secondo la normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici.
 
Allo stesso modo si procede per le notificazioni a persona diversa dall'imputato a norma dell'art. 148 c.p.p., comma 2 bis, artt. 149 e 150 c.p.p. e art. 151 c.p.p., comma 2. La relazione di notificazione è redatta in forma automatica dai sistemi informatici in dotazione alla cancelleria". Ne consegue, pertanto, che per la parte privata, nel processo penale, l'uso di tale mezzo informatico di trasmissione non è - allo stato - consentito quale forma di comunicazione e/o notificazione.
 
5. E', invece, fondata la censura difensiva per aver omesso la Corte d'appello di valutare l'istanza di rinvio che il difensore, dopo aver inoltrato per posta elettronica, aveva provveduto a depositare in cancelleria il giorno prima dell'udienza, come risulta dall'esame del fascicolo processuale che questa Corte ha esaminato, essendo giudice del fatto attesa la natura processuale dell'eccezione.
 
Ed invero, pur risultando depositata l'istanza di rinvio il giorno precedente l'udienza, non risulta dalla motivazione della sentenza impugnata nè dal verbale dell'udienza svoltasi il 21 maggio 2013, che il collegio ebbe a valutarla.
 
A prescindere, dunque, dalla fondatezza o meno dell'istanza, la omissione tout court della delibazione dell'istanza di rinvio, integra una nullità assoluta per violazione del diritto all'assistenza e rappresentanza dell'imputato.
 
Come più volte affermato da questa Corte, infatti, in tema di legittimo impedimento a comparire del difensore, l'omessa valutazione dell'istanza di rinvio dell'udienza determina il difetto di assistenza dell'imputato, con la conseguente nullità assoluta di cui all'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 179 c.p.p., comma 1, (principio affermato in relazione ad una fattispecie, analoga a quella in esame, in cui il processo era stato celebrato senza l'effettiva partecipazione del difensore di fiducia o di un sostituto da lui nominato: Sez. 6, n. 42110 del 14/10/2009 - dep. 02/11/2009, Gaudio, Rv. 245127).
 
6. L'impugnata sentenza dev'essere, pertanto, annullata con rinvio alla Corte d'appello di Catania, altra sezione, per nuovo giudizio.
 
P.Q.M.
 
Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'appello di Catania.
 
Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2014.
 
Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2014
 
Corte di Cassazione, sezione III penale, sentenza 10 febbraio 2014 (dep. 13 febbraio 2014) n. 7058
 
Fonte penale.it :
 
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Avvocato penalista - "No alla PEC nel processo penale"; lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella recente sentenza che qui di seguito si riporta.
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mercoledì 25 giugno 2014

Avvocato penalista - Furto di identità digitale e frode informatica ovvero l'aggravante introdotta all'Art. 640 ter del Codice Penale dal D. L. 14 agosto 2013, n°. 93 convertito, con modificazioni, nella L.15 ottobre 2013, n°. 119.

Avvocato penalista - Furto di identità digitale e frode informatica ovvero l'aggravante introdotta all'Art. 640 ter del Codice Penale dal D. L. 14 agosto 2013, n°. 93 convertito, con modificazioni, nella L.15 ottobre 2013, n°. 119.
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Avvocato penalista - Furto di identità digitale e frode informatica ovvero l'aggravante introdotta all'Art. 640 ter del Codice Penale dal D. L. 14 agosto 2013, n°. 93 convertito, con modificazioni, nella L.15 ottobre 2013, n°. 119.
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"" Frode informatica e "furto di identità digitale"
 
In occasione dell’ennesimo blitz agostano, il Governo, all’interno del DL 14 agosto 2013, n. 93, uno dei tanti “decreti omnibus”, riguardante “disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province”, ha ritenuto di introdurre, per la prima volta, nel codice penale, la nozione di “identità digitale”.
 
E’ stato infatti prevista un’aggravante per il delitto di frode informatica (art. 640 ter), “se il fatto è commesso con sostituzione dell’identità digitale in danno di uno o più soggetti”. Si tratta per di più di un’aggravante a effetto speciale, in quanto prevede la pena della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 600 a euro 3.000.
 
La norma è “sopravvissuta” anche in sede di conversione (il decreto è stato definitivamente convertito, con modificazioni, dalla L.15 ottobre 2013, n. 119), ove ha ricevuto un’ulteriore modifica: l’aggravante è ora prevista “se il fatto è commesso con furto o indebito utilizzo dell’identità digitale in danno di uno o più soggetti”.
 
La ratio, secondo la Relazione al Parlamento andrebbe individuata nel “rendere più efficace il contrasto del preoccupante e crescente fenomeno del cosiddetto «furto d’identità digitale», attraverso il quale vengono commesse frodi informatiche, talora con notevole nocumento economico per la vittima”.
 
A prima lettura, la norma (oltre che formulata in maniera assai criticabile) appare non del tutto rispondente alle finalità dichiarate.
 
Avevo già notato, in un precedente commento, pubblicato su La Stampa online come vi siano diversi profili problematici.
 
In primo luogo, manca del tutto qualsiasi definizione di “identità digitale”.
 
Questa lacuna deve essere quindi riempita dall’interprete, ma non è un’operazione semplice.
 
Si deve fare riferimento al complesso delle informazioni online di un soggetto, alla “dimensione digitale” dell’individuo, propriamente detta, o, ben più semplicemente, la norma intende punire più severamente i casi di sottrazione (o indebito utilizzo) di username e password, magari del proprio servizio di home banking?
 
In altre parole, occorre appropriarsi dell’intera “identità digitale” di un soggetto, o basta utilizzarne indebitamente le credenziali di accesso a un sito, o addirittura al proprio computer?
 
E’ difficile ritenere che tale ultima soluzione sia corretta, dal momento che, laddove si fosse voluto effettuare un mero richiamo all’utilizzo indebito di credenziali, si sarebbe fatto riferimento a quanto disposto dall’art. 615 quater c.p., che sanziona l’abusiva detenzione e diffusione a fini di profitto di “codici, parole chiave o altri mezzi idonei all’accesso a un sistema informatico o telematico”.
 
E allora occorre forse allargare il campo di analisi, come suggerisce anche il dossier del Servizio Studi del Senato, per considerare il “furto di identità”, definito dal D.lgs 141/2010, all’art. 30-bis, il quale dispone: “ai fini del presente decreto legislativo per furto d’identità si intende: a) l’impersonificazione totale: occultamento totale della propria identità mediante l’utilizzo indebito di dati relativi all’identità e al reddito di un altro soggetto. L’impersonificazione può riguardare l’utilizzo indebito di dati riferibili sia ad un soggetto in vita sia ad un soggetto deceduto; b) l’impersonificazione parziale: occultamento parziale della propria identità mediante l’impiego, in forma combinata, di dati relativi alla propria persona e l’utilizzo indebito di dati relativi ad un altro soggetto, nell’ambito di quelli di cui alla lettera a)”.
 
Questa definizione è però espressamente circoscritta (mediante l’inciso “ai fini del presente decreto legislativo”), e riguarda, in ogni caso, l’identità in generale, non l’”identità digitale”.
 
Proprio a tale ultimo concetto fa al contrario riferimento il “Decreto Crescita 2.0” (DL 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221), ove viene individuato il “sistema unificato di identità digitale”.
 
Tale sistema è costituito dal “documento digitale unificato”, in sostituzione sia della Carta d’identità sia della Tessera Sanitaria, e dal “domicilio digitale”, costituito dalla PEC.
 
Non sarebbe pertanto azzardato supporre (in assenza di specificazioni) che l’aggravante introdotta non faccia riferimento a una generica definizione di “identità digitale”, ma la fattispecie debba essere integrata dalla norma extrapenale (ancorché non richiamata) che ne delimiti i contorni esatti.
 
I lavori parlamentari hanno poi dato sostanza di precetto positivo al concetto di “furto di identità digitale”, echeggiando, presumibilmente, la definizione del D.lgs 141/2010.
 
Ma questa innovazione, lungi dall’essere risolutiva, ha forse acuito i problemi. Nella cornice del diritto penale, difatti, il concetto di “furto” è (o meglio dovrebbe essere) chiaramente delimitato dall’art. 624 c.p., quale impossessamento mediante sottrazione di cosa mobile altrui a fini di profitto, e all’interno di tale categoria è espressamente compresa l’energia elettrica e “ogni altra energia che abbia un valore economico”.
 
Delle due l’una: o il legislatore (all’interno del Codice Penale!) utilizza il termine “furto” in maniera del tutto impropria, richiamando (implicitamente) il D.lgs 141/2010, oppure occorre supporre che l’identità digitale costituisca una forma misteriosa e arcana di energia, l’anima del nostro ego digitale.
 
Ma non basta: la norma, così come è formulata, pone rilevantissimi problemi, con riguardo al concorso con altre fattispecie.
 
In primo luogo, il “furto o indebito utilizzo dell’identità digitale in danno di uno o più soggetti”, potrebbe costituire una modalità di accesso abusivo a sistema informatico (di cui all’art. 615 ter c.p.), o integrare, come già detto, il delitto di cui all’art. 615-quater.
 
E, ancora, si potrebbero porre problemi di concorso (apparente?) con l’art. 494 c.p., che sanziona la sostituzione di persona (pacificamente applicabile anche nel caso di pseudonimo o nickname, come più volte ribadito dalla Cassazione).
 
Non solo: sarà interessante verificare cosa dirà la giurisprudenza in tema di rapporto con il delitto di indebito utilizzo di sistemi di pagamento (di cui all’art. 55, comma 9, D.lgs 231/2007) e con il delitto di cui all’art. 167 del Codice della Privacy (D.lgs 196/2003).
 
Oltre che difficile da ricostruire sotto il profilo interpretativo e sistematico, la nuova circostanza aggravante della frode informatica rischia per di più di trovare ben scarsa applicazione.
 
Se infatti l’intento (dichiarato) del Legislatore è quello di sanzionare più severamente i “furti d’identità” che provocano un detrimento economico, non si considera come molto spesso i fatti sono qualificabili non quale frode informatica (punita dall’art. 640 ter, appunto), ma come truffa “semplice”, di cui all’art. 640 c.p., come è accaduto in vari procedimenti per “phishing”, o per le truffe su ebay, perpetrate (anche) mediante l’hijacking di account altrui.
 
La mancata modifica dell’art. 640 c.p. potrebbe dunque restringere di molto l’ambito potenziale di applicazione della norma.
 
In conclusione, la tutela dell’”identità digitale” avrebbe dovuto essere esaminata in maniera organica, e non passare (come invece è accaduto) attraverso l’agostana introduzione di una peculiare fattispecie aggravante, formulata per di più in maniera assai generica, e quasi sicuramente foriera di dubbi interpretativi e applicativi.
 
Fonte leggioggi.it :
 
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Avvocato penalista - Furto di identità digitale e frode informatica ovvero l'aggravante introdotta all'Art. 640 ter del Codice Penale dal D. L. 14 agosto 2013, n°. 93 convertito, con modificazioni, nella L.15 ottobre 2013, n°. 119.
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martedì 24 giugno 2014

Avvocato penalista - Configura il reato di sostituzione di persona, ai sensi dell'Art. 494 del Codice Penale, il fatto di chi costituisca un account su un social network utilizzando l'immagine di un'altra persona.


Avvocato penalista - Configura il reato di sostituzione di persona, ai sensi dell'Art. 494 del Codice Penale, il fatto di chi costituisca un account su un social network utilizzando l'immagine di un'altra persona.
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Avvocato penalista - Configura il reato di sostituzione di persona, ai sensi dell'Art. 494 del Codice Penale, il fatto di chi costituisca un account su un social network utilizzando l'immagine di un'altra persona.
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L'Articolo 494 del Codice Penale, intitolato al reato di Sostituzione di persona, prevede e stabilisce che:
 
Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all'altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito se il fatto non costituisce un altro delitto contro la fede pubblica con la reclusione fino a un anno.
 
"" Sussiste il reato di sostituzione di persona ex art. 494 c.p. qualora sia costituito un account su un social network utilizzando l''immagine di un'altra persona (che diviene persona offesa)
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DUBOLINO Pietro - Presidente -
Dott. PEZZULLO Rosa - Consigliere -
Dott. DE MARZO Giuseppe - Consigliere -
Dott. POSITANO Gabriele - Consigliere -
Dott. LIGNOLA Ferdinando - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.D. N. IL (OMISSIS);
 
avverso la sentenza n. 1310/2012 CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA, del 16/05/2013;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 23/04/2014 la relazione fatta dal Consigliere Dott. FERDINANDO LIGNOLA;
 
Il Procuratore generale della Corte di cassazione, Dott. Stabile Carmine, ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso;
 
il difensore della parte civile, avv. Zoccali Manuela Maria in sostituzione dell'avv. Badolati Felice, ha
concluso riportandosi alle conclusioni scritte, in atti.

Svolgimento del processo

1. Con la sentenza resa in data 19 aprile 2012, confermata dalla Corte d'appello di Reggio Calabria il 16 maggio 2013, il Tribunale di Palmi condannava S.D. alla pena di giustizia per il delitto di sostituzione di persona, poichè al fine di procurarsi un vantaggio o comunque di recare danno a C.N., si attribuiva la sua identità, pubblicando sul sito www.badoo.com la sua immagine, associata al nominativo "(OMISSIS)", utilizzando il profilo creato e così inducendo in errore coloro che comunicavano con lui attraverso la "chat".
 
2. Contro la sentenza propone ricorso per Cassazione l'imputato, con atto del proprio difensore, avv. Giuseppe Marafioti, affidato a tre motivi.
 
2.1 Con il primo motivo si deduce violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. E, in relazione all'art. 494 cod. pen., con riferimento all'elemento soggettivo del reato richiesto dalla norma penale nella forma del dolo specifico, caratterizzato dal fine di recare a se o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno. A giudizio del ricorrente tale forma di dolo deve escludersi nella mera pubblicazione di un profilo su Internet, non del tutto riferibile alla persona offesa, della quale viene solo utilizzata una fotografia e non anche il nome.
 
2.2 Con il secondo motivo si deduce violazione dell'art. 606, lett. E, in relazione all'art. 192 cod. proc. pen., con riferimento alla valutazione di attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, la quale riferisce circostanze generiche ed in parte incongruenti, che dovevano condurre ad escludere la sua attendibilità, considerata altresì la costituzione di parte civile.
 
3. Con il terzo motivo si deduce violazione dell'art. 606, lett. D ed E, in relazione all'art. 495 c.p.p., comma 2, con riferimento alla mancata escussione, ai sensi dell'art. 603 cod. proc. pen., della teste B., alla quale la parte civile aveva fatto riferimento come la persona che lo avrebbe informato dell'esistenza del falso profilo su internet. Il ricorrente censura la valutazione di non necessarietà della prova richiesta, come non adeguatamente motivata e violativa del diritto alla controprova.
 
4. Con memoria del 9 aprile 2013, la parte civile C.N. chiede dichiararsi l'inammissibilità del ricorso, poichè nello stesso sono denunciati esclusivamente vizi di merito. In subordine se ne chiede il rigetto, per infondatezza delle doglianze.
 
4.1 Con riferimento al primo motivo, si sottolinea che il dolo è evidenziato, nella sentenza di primo grado, nel fine di arrecare un danno all'immagine ed alla dignità della vittima.
 
4.2 Quanto all'attendibilità della persona offesa, si richiama la motivazione della sentenza impugnata, che si ritiene congrua ed immune da illogicità di sorta e pertanto sottratta ad ogni sindacato di legittimità.
 
4.3 In ordine, infine, alla mancata assunzione di prova decisiva, si ribadisce la superfluità dei mezzi istruttori richiesti, atteso che la responsabilità dell'imputato è stata provata attraverso le indagini sull'utenza telefonica e sul personal computer del S.
 
Motivi della decisione
 
1. Il ricorso va rigettato.
 
1.1 Il primo motivo, riguardante la mancata verificazione del dolo specifico da parte della Corte territoriale, è inammissibile, poichè proposto per la prima volta in sede di legittimità, in contrasto con l'orientamento costante di questa Corte (Sez. 3, n. 21920 del 16/05/2012, Hajmohamed, Rv. 252773) secondo cui la denuncia di violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello costituisce causa di inammissibilità originaria dell'impugnazione.
 
Il parametro dei poteri di cognizione del giudice di legittimità è delineato dall'art. 609 c.p.p., comma 1, il quale ribadisce in forma esplicita un principio già enucleabile dal sistema, e cioè la commisurazione della cognizione di detto giudice ai motivi di ricorso proposti. Detti motivi - contrassegnati dall'inderogabile "indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto" che sorreggono ogni atto d'impugnazione (art. 581 c.p.p., comma 1, lett. E e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. C) - sono funzionali alla delimitazione dell'oggetto della decisione impugnata ed all'indicazione delle relative questioni, con modalità specifiche al ricorso per cassazione.
 
La disposizione in esame deve infatti essere letta in correlazione con quella dell'art. 606, comma 3, nella parte in cui prevede la non deducibilità in cassazione delle questioni non prospettate nei motivi di appello. Il combinato disposto delle due norme impedisce la proponibilità in cassazione di qualsiasi questione non prospettata in appello, e, come rileva la più recente dottrina, costituisce un rimedio contro il rischio concreto di un annullamento, in sede di cassazione, del provvedimento impugnato, in relazione ad un punto intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello: in questo caso, infatti, è facilmente diagnosticabile in anticipo un inevitabile difetto di motivazione della relativa sentenza con riguardo al punto dedotto con il ricorso, proprio perchè mai investito della verifica giurisdizionale.
 
1.2 La doglianza è comunque anche infondata.
 
L'art. 494 cod. pen. punisce chiunque, al fine di procurare a sè o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all'altrui persona, o attribuendo a sè o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici.
 
Oggetto della tutela penale è l'interesse riguardante la pubblica fede, in quanto questa può essere sorpresa da inganni relativi alla vera essenza di una persona o alla sua indentità o ai suoi attributi sociali; siccome si tratta di inganni che possono superare la ristretta cerchia d'un determinato destinatario, il legislatore ha ravvisato in essi una costante insidia alla fede pubblica, e non soltanto alla fede privata e alla tutela civilistica del diritto al nome.
 
In questa prospettiva, è evidente la configurazione, nel caso concreto, di tutti gli elementi costitutivi della contestata fattispecie delittuosa.
 
1.3 Nella specie, il ricorrente ha creato un profilo sul social network Badoo denominato "(OMISSIS)", riproducente l'effige della persona offesa, con una descrizione tutt'altro che lusinghiera (ad esempio nelle informazioni personali era riportata la dicitura "Mangio solo cibo spazzatura e bevo birra... quando mi ubriaco vado su di giri") e con tale falsa identità usufruiva dei servizi del sito, consistenti essenzialmente nella possibilità di comunicazione in rete con gli altri iscritti (indotti in errore sulla sua identità) e di condivisione di contenuti (tra cui la stessa foto ritraente il C.).
 
1.4 Il dolo specifico del delitto di cui all'art. 494 cod. pen., consiste nel fine di procurare a se o ad altri un vantaggio patrimoniale o non, oppure di recare ad altri un danno (Sez. 5, n. 13296 del 28/01/2013, Marino, Rv. 255344) e sul punto le decisioni di merito danno conto della sussistenza di entrambi i profili: dei vantaggi ritraibili dall'attribuzione di una diversa identità, che il ricorrente utilizzava per poter intrattenere rapporti con altre persone (essenzialmente ragazze) o per soddisfacimento di una propria vanità (vantaggio non patrimoniale); della idoneità della condotta a ledere l'immagine e la dignità del C. (come dimostrato dall'aggressione verbale dello sconosciuto, che lo accusò di aver insultato la propria fidanzata, minacciando di denunciarlo nonchè dalle rimostranze della conoscente, che lo aveva accusato di non essere una persona seria).
 
1.3 Con riferimento al fenomeno della comunicazione a mezzo internet, questa Corte ha recentemente ritenuto sussistere il delitto di sostituzione di persona nella condotta di colui che crei ed utilizzi un "account" ed una casella di posta elettronica, servendosi dei dati anagrafici di un diverso soggetto, inconsapevole, con il fine di far ricadere su quest'ultimo l'inadempimento delle obbligazioni conseguenti all'avvenuto acquisto di beni mediante la partecipazione ad aste in rete (Sez. 3, n. 12479 del 15/12/2011 - dep. 03/04/2012, Armellini, Rv. 252227), nonchè nella condotta di chi inserisca nel sito di una "chat line" a tema erotico il recapito telefonico di altra persona associato ad un "nickname" di fantasia, qualora abbia agito al fine di arrecare danno alla medesima, giacchè in tal modo gli utilizzatori del servizio vengono tratti in inganno sulla disponibilità della persona associata allo pseudonimo a ricevere comunicazioni a sfondo sessuale (Sez. 5, n. 18826 del 28/11/2012 - dep. 29/04/2013, Celotti, Rv. 255086).
 
1.4 Più aderente alla fattispecie oggetto di questo giudizio è però quella esaminata da una decisione meno recente di questa Sezione (Sez. 5, n. 46674 del 08/11/2007, Adinolfi, Rv. 238504), della condotta la condotta di colui che crei ed utilizzi un "account" di posta elettronica, attribuendosi falsamente le generalità di un diverso soggetto, inducendo in errore gli utenti della rete internet nei confronti dei quali le false generalità siano declinate e con il fine di arrecare danno al soggetto le cui generalità siano state abusivamente spese (nella specie a seguito dell'iniziativa dell'imputato, la persona offesa si ritrovò a ricevere telefonate da uomini che le chiedevano incontri a scopo sessuale).
 
In questa fattispecie, come in quella, infatti, la descrizione di un profilo poco lusinghiero, come sopra ricordato, consente di riconoscere, oltre all'intento di conseguire un vantaggio non patrimoniale, quello di recare un danno all'altrui reputazione, intesa come l'immagine di sè presso gli altri.

2. Il secondo motivo è inammissibile.
 
2.1 Con riferimento alla doglianza di illogicità e contraddittorietà delle motivazioni in ordine all'attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, vanno ricordati i principi espressi sul tema da questa Corte.
 
Il Tribunale di Palmi si è adeguato alla consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo la quale le dichiarazioni della persona offesa possono essere assunte anche da sole come prova della responsabilità dell'imputato, purchè siano sottoposte ad un attento controllo circa la loro attendibilità, senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all'art. 192 cod. proc. pen., commi 3 e 4, che richiedono la presenza di riscontri esterni; fermo restando che, nel caso in cui la persona offesa si sia anche costituita parte civile - e sia, perciò, portatrice di pretese economiche - il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a quello generico cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi testimone e può rendere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte, Rv. 253214). Detto controllo avviene peraltro nell'ambito di una valutazione di fatto che non può essere rivalutata in sede di legittimità, a meno che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni (Sez. 2, n. 41505 del 24/09/2013, Terrusa, Rv. 257241).
 
2.2 La Corte territoriale ha poi confermato la valutazione del Tribunale in ordine all'attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, definendole "coerenti, costanti nel tempo immuni da contraddizioni e scevre da malanimo o risentimento" e idonee a fondare un giudizio di responsabilità dell'imputato, evidenziando che comunque tale giudizio si fonda su molti altri elementi, derivanti dall'attività investigativa della Polizia postale, che ha consentito di associare al profilo del sito Badoo la famiglia dell'imputato, attraverso l'individuazione dell'indirizzo IP del computer che aveva creato l'account e, nell'ambito del nucleo familiare corrispondente all'utenza telefonica, di risalire all'odierno imputato, grazie all'analisi dell'hard disk del suo computer portatile. La sentenza di primo grado (la cui motivazione, trattandosi di c.d. "doppia conforme", ben può integrare, come è noto, quella della sentenza d'appello; Sez. 1, n. 8868 del 26/06/2000, Sangiorgi, Rv. 216906; Sez. 2, n. 5606 del 10/01/2007, Conversa, Rv. 236181) sottolinea l'inconferenza di qualsiasi questione sull'attendibilità della persona offesa, dal momento che la circostanza dell'inserimento di un profilo a suo nome emerge obiettivamente e pacificamente da tutto il compendio probatorio acquisito in atti.
 
3. Il terzo motivo di ricorso, riguardante il diniego di rinnovazione dell'istruttoria, per mancanza di una adeguata motivazione e violazione del diritto alla controprova, è infondato.
 
3.1 In sede di appello l'imputato aveva richiesto l'escussione delle sorelle B., al fine di verificare l'attendibilità della persona offesa C., la quale aveva dichiarato di aver appreso dell'esistenza del falso profilo sul sito www.badoo.com da una delle due: la donna gli aveva riferito di aver avuto uno spiacevole colloquio in chat con la persona che si celava dietro la sua immagine. La prova era considerata dall'istante una prova "nuova", poichè il nominativo delle B. era emerso solamente nel dibattimento di primo grado; inoltre era stata chiesta una nuova escussione della persona offesa, al fine di approfondire la reale verificazione di un profilo di danno, necessario ai fini della sussistenza del reato.
 
3.2 Il motivo di doglianza deve ritenersi non accoglibile, costituendo ius receptum, nell'elaborazione giurisprudenziale di questa Suprema Corte, il principio secondo cui la mancata assunzione di una prova decisiva può costituire motivo di ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. D, solo quando si tratti di prove sopravvenute o scoperte dopo la pronuncia di primo grado, che avrebbero dovuto essere ammesse secondo il disposto dell'art. 603 c.p.p., comma 2; negli altri casi, la decisione istruttoria è ricorribile, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. E, sotto il solo profilo della mancanza o manifesta illogicità della motivazione come risultante dal testo del provvedimento impugnato e sempre che la prova negata, confrontata con le ragioni addotte a sostegno della decisione, sia di natura tale da poter determinare una diversa conclusione del processo (Sez. 5, n. 34643 del 08/05/2008, De Carlo, Rv. 240995; Sez. 2, n. 44313 del 11/11/2005, Picone, Rv.232772).
 
3.3 La prima evenienza deve essere esclusa, poichè la prova "nuova", che il giudice di appello, in presenza di istanza di parte, è tenuto ad ammettere, con il solo limite costituito dalle ipotesi di richieste concernenti prove vietate dalla legge o manifestamente superflue o irrilevanti (Sez. 1, n. 39663 del 07/10/2010, Cascarino, Rv. 248437) è solo quella "sopravvenuta o scoperta dopo il giudizio di primo grado" e non nel corso di questo, cioè quella con carattere di novità, rinvenibile laddove essa sopraggiunga autonomamente, senza alcuno svolgimento di attività, o quando venga reperita dopo l'espletamento di un'opera di ricerca, la quale dia i suoi risultati in un momento posteriore alla decisione (Sez. 3, n. 11530 del 29/01/2013, A.E., Rv. 254991). In proposito il ricorso si limita a richiamare la deposizione in dibattimento della parte civile, indicando poi nella rubrica del motivo - impropriamente - la lettera D dell'art. 606 cod. proc. pen.
 
3.4 Nel caso di specie deve però escludersi anche la seconda ipotesi.
 
Proprio in ragione del carattere eccezionale della rinnovazione dell'istruzione dibattimentale in appello, infatti, il mancato accoglimento della richiesta in tanto può essere censurato in sede di legittimità, in quanto risulti dimostrata la oggettiva necessità dell'adempimento in questione e, dunque, l'erroneità di quanto esplicitamente o implicitamente ritenuto dal giudice di merito circa la possibilità di "decidere allo stato degli atti", come previsto dall'art. 603 cod. proc. pen., comma 1; ne discende che il ricorrente deve dimostrare l'esistenza, nell'apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate qualora fosse stato provveduto, come richiesto, all'assunzione o alla riassunzione di determinate prove in sede di appello (Sez. 6, n. 1256 del 28/11/2013 - dep. 14/01/2014, Cozzetto, Rv. 258236).
 
Il ricorrente non ha fornito tale dimostrazione, avendo la Corte d'appello congruamente ed esaustivamente argomentato, sulla base di una valutazione in fatto non censurabile in sede di legittimità, nel senso della manifesta superfluità dei temi oggetto della richiesta di rinnovazione istruttoria formulata dalla difesa, per la completezza dell'apparato probatorio e le inequivoche ed oggettive risultanze processuali; tale motivazione non può ritenersi di mero stile, laddove si consideri la decisività degli accertamenti operati dalla Polizia postale e la genericità delle richieste istruttorie.
 
3.5 Per concludere sul punto va ricordato che recentemente si è osservato che mentre la rinnovazione deve essere specificamente motivata, occorrendo dare conto dell'uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza di non potere decidere allo stato degli atti, nel caso di rigetto la relativa motivazione può essere anche implicita nella stessa struttura argomentativa posta a base della pronuncia di merito, che evidenzi la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in senso positivo o negativo sulla responsabilità con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento (Sez 5 n. 15320 del 10/12/2009, Pacini, Rv. 246859; Sez. 3, n. 24294 de. 07/04/2010, D. S. B.; Rv. 247872; Sez. 6, n. 30774 del 16/07/2013, Trecca, Rv. 257741) 4. in conclusione il ricorso dell'imputato va rigettato, con conseguente condanna dello stesso al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che si liquidano in Euro2000,00, oltre accessori di legge.
 
P.Q.M.
 
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate Euro 2000,00, oltre accessori di legge.
 
Così deciso in Roma, il 23 aprile 2014.
 
Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2014
Fonte penale.it :

http://www.penale.it/page.asp?mode=1&IDPag=1168 ""
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Avvocato penalista - Configura il reato di sostituzione di persona, ai sensi dell'Art. 494 del Codice Penale, il fatto di chi costituisca un account su un social network utilizzando l'immagine di un'altra persona.
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